Quando si fece conoscere al mondo vincendo due ori a Barcellona 1992, tutti si aspettavano la grande sfida tra Matt Biondi e Conor Jaeger “e invece arrivò questo ragazzino e ci bruciò entrambi”, ricorda con il sorriso proprio il velocista californiano.
Il suo talento naturale in acqua, la sua nuotata così elegante e così efficace, la sua attitudine vincente sono le qualità sportive che gli hanno permesso di dominare la scena della velocità per quasi un decennio. Ma di tutte le caratteristiche che gli vengono attribuite, la più sottovalutata è la schiettezza, quella che forse meglio ne descrive la personalità. In una intervista alla televisione russa, Aleksandr ha parlato del suo periodo migliore, da lui individuato nel quadriennio tra le Olimpiadi di Barcellona e quelle di Atlanta, e senza falsa modestia ha dichiarato: “Se ero in condizione, nessuno poteva battermi. Ma spesso ho vinto anche se non ero al top della forma.”
Nel 1997 si presentò agli Europei di Siviglia a soltanto un anno dall’aggressione subita nel mercato di Mosca, quando fu accoltellato all’addome ed ai reni da un venditore ambulante in seguito ad una lite nella quale, in realtà, centrava poco o niente. Vinse sia i 50 che i 100 stile e dichiarò che “la mia mente non è stata ferita, il mio spirito nemmeno, soltanto il mio corpo”, quasi ad affermare che, per vincere, poteva anche permettersi che una di queste tre componenti fosse deficitaria.
In verità, la mentalità vincente e lo spirito ferreo di Popov sono sempre stati accompagnati da un fisico che sembrava studiato in laboratorio per il nuoto: i suoi muscoli lunghi e tonici, accompagnati da un naturale galleggiamento, lo facevano volare sull’acqua. Come solo i grandi campioni, Popov dava l’impressione di non faticare nell’esecuzione del gesto e, pur gareggiando nelle distanze veloci, difficilmente la sua bracciata si scomponeva per dare spazio all’esasperazione della frequenza.
Si trattava di uno stile libero bello da vedere ed estremamente efficace al quale lo Zar sommava una cura maniacale dei dettagli di nuotata, dall’appoggio della mano in acqua all’inserimento della gambata – era in grado di nuotare sotto i 27” in un 50 gambe stile -, impostati insieme al suo mentore, Gennadi Touretski.
“I grandi campioni hanno qualcosa in più” diceva il tecnico che ha accompagnato Popov per tutta la sua carriera, “ma lui aveva qualcosa in più dei grandi campioni. Era determinato, focalizzato all’obiettivo, niente lo avrebbe mai potuto ostacolare.”
Una determinazione dimostrata non solo nei momenti di grande splendore ma anche nelle difficoltà. Come a Sydney 2000, quando si presentò per tentare la terza medaglia d’oro consecutiva – impresa mai riuscita a nessuno nei 50 e 100 stile – ma uscì decisamente ridimensionato dall’esplosione di nuovi e giovani atleti, su tutti Pieter van den Hoogenband.
Popov non era contento dell’introduzione, ai Giochi Olimpici, della semifinale dopo le batterie, perché lo trovava “spettacolare ma molto duro”, però era consapevole che “lo sport è anche un prodotto da vendere” e giustificava così la scelta dell’organizzazione. E dopo aver appena perso il record del mondo nei 100 stile – per puro caso proprio nella semifinale olimpica -, rispondeva all’intervistatrice che “i record vanno e vengono, sono fatti per questo, è normale.” La giornalista gli chiese anche se avremmo mai visto un suo nuovo record del mondo e lui, schietto come sempre, non chiuse le porte al futuro: “Non posso prometterlo, aspettiamo e vediamo.”
Nella gara regina, i 100 stile libero, è rimasto imbattuto dal 1991 al 1998, ha conquistato due ori Olimpici, tre mondiali e sei europei ed ha stabilito un record del mondo (48”21) rimasto intoccato per sei anni. Ma la sua aura di invincibilità andava ben oltre i titoli e “nuotare accanto a lui era come sfidare una divinità” assicura Gary Hall Jr, uno che non si perde in giri di parole “a volte ti batteva già prima del via, solo con lo sguardo”, sempre celato sotto ad un paio di occhialini scuri.
Come nel caso di Thorpe con il suo costumone nero, anche Popov aveva uno stile che lo ha definito lungo tutta la sua carriera, rendendolo allo stesso tempo riconoscibile e temuto. A differenza di molti velocisti, non cercava di ridurre al massimo l’attrito dell’acqua tagliandosi i capelli a zero e nemmeno mettendosi una cuffia, ma gareggiava soltanto con gli occhialini, lasciando i capelli liberi di bagnarsi. Nemmeno verso la fine degli anni ’90, quando iniziavano ad apparire i primi costumi interi, Popov ha abbandonato il suo costumino classico a slip, con il quale ha comunque dominato la concorrenza per quasi tutta la carriera.
Soltanto nel suo ultimo trionfo mondiale, a Barcellona 2003, lo Zar ha ceduto ad un costume lungo fino alla caviglia, rifiutando però di indossare la cuffia. Dopo i tre ori di quell’edizione – 50, 100 stile e 4×100 stile – ottenuti a 31 anni e contro avversari ben più giovani, tra i quali Foster e van den Hoogenband, dichiarò: “Non ho fatto nulla di incredibile, solo il mio dovere.”
Un senso del dovere che è in parte legato alle sue radici, all’essere cresciuto nella rigida ma amata Lesnoj, nel centro dell’Unione Sovietica. Popov era talmente importante per il suo Paese che, pochi giorni dopo il già citato incidente del 1996, fu costretto ad apparire nella televisione nazionale russa, su invito del Primo Ministro, per rassicurare la popolazione sulle sue condizioni di salute. Fu poi trasferito in un ospedale “di lusso”, nel quale gli fu riservata una suite accanto a quella occupata dalla moglie di Eltsin. Si dice che, proprio in quei giorni, Popov abbandonò l’idea di prendere la cittadinanza Australiana, terra nella quale già si allenava e che aveva più volte pensato di abbracciare anche a livello agonistico.
Ma Popov in patria era un vero e proprio idolo: nel 1992 aveva gareggiato sotto la bandiera della Comunità degli Stati Indipendenti per poi passare a quella russa negli anni a venire, dando al suo popolo un esempio da seguire in un periodo difficile, rappresentando una figura nella quale identificarsi in un’epoca di forti divisioni interne. Le condizioni non ottimali in patria, ed in particolare la poca sicurezza del vivere in Russia, fecero scegliere allo Zar la strada dell’Australia, terra nella quale poteva allenarsi accanto a campioni del suo calibro ed in condizioni ideali per la preparazione di un atleta professionista. Come ricorda Touretski, “andare ad allenarsi era diventato finalmente un piacere, le condizioni erano perfette e non dovevamo avere paura ad andare in giro.”
I frutti del lavoro si videro da subito: “I ragazzi avevano formato un gruppo talmente affiatato che, come riscaldamento, giocavano a sfidarsi in un 50 metri: una volta Popov fece meno del record del mondo nei 50 dorso”. Ma alla fine lo Zar non cedette mai all’idea di lasciare la sua nazionalità e, nella sua ultima apparizione olimpica ad Atene 2004, fu anche portabandiera nella cerimonia di apertura, esperienza che ricorda come “emozionante, sentivo di aver il peso della mia patria sulle spalle”.
Quell’anno le gare non andarono bene, nei 100 stile si fermò addirittura alle semifinali, eliminato per 2 centesimi da un Ian Thorpe che si è detto “dispiaciuto, perché per me era un mito, un esempio da seguire, ma anche in quell’occasione si comportò da signore.” Le parole di Popov furono ancora una volta schiette: “Sono vecchio, è già tanto essere qui ed aver fatto quello che ho fatto. Ora largo ai giovani”.
Poco dopo i Giochi di Atene, comunicò al mondo la decisione di ritirarsi. Aveva iniziato all’età di sette anni, costretto dal padre a buttarsi in piscina perché aveva paura dell’acqua: “Da quel momento non ho più smesso, sono stati 25 anni bellissimi ma ora è giusto cambiare pagina”.
Popov è rimasto un simbolo nel mondo del nuoto, ed ha affiancato la carriera dirigenziale a quella da testimonial di vari marchi, soprattutto di lusso. Il suo parere nell’ambiente è sempre tra i più richiesti e le sue parole sono rimaste taglienti come un tempo; interpellato sul ritorno al nuoto di Phelps nel 2015, lo Zar ha squadrato il giornalista che ha posto la domanda: “Davvero Michael deve dimostrare qualcosa ad uno come te? Potrebbe anche nuotare al contrario o sottosopra, sarebbe sempre Michael Phelps. Lui è lassù e tutti noi siamo molto, molto più in basso.”
Anche se, ai suoi tempi, nessuno poteva permettersi di essere più in alto di lui:
“Non importa in che gara stessi nuotando, se i mondiali o un trofeo qualsiasi: se vedevo un ragazzo giovane e con del talento, mi impegnavo a batterlo. Non dovevo solo batterlo, dovevo fargli passare la voglia di nuotare. Dovevo avere un rivale in meno.”
Tanto cordiale ed elegante quanto schietto e glaciale.
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