Un giorno, molto tempo fa, mentre camminavo per le vie della mia città vidi in lontananza una chiazza verde dalla forma irregolare, adagiata sul marciapiede a pochi metri da me.

Il suo colore fosforescente risaltava sul grigio scuro del marciapiede e il mio occhio ne era stato inevitabilmente attratto. Più mi avvicinavo e più capivo che non si trattava di una macchia informe, ma di qualcosa di solido, dalla forma poliedrica, modificato dal vento e dalle suole delle scarpe dei passanti. Non so bene cosa rendesse così affascinante quello che, in fin dei conti, era semplicemente un rifiuto, ma passo dopo passo ero ormai rapito: dovevo raccoglierlo. Si trattava di un fazzoletto.

Non un fazzoletto da naso ma uno di quei tovaglioli da festa, fatto di una carta abbastanza spessa e rigida, tanto che non si era perfettamente appallottolato ma era rimasto piuttosto aperto, quasi a formare involontariamente un origami. Fermandomi poco prima, mi accorsi che al suo interno c’era scritto qualcosa. Nonostante il supporto fosse deteriorato, il pennarello nero sullo sfondo verde fluo era ben leggibile. O meglio, si poteva leggere perfettamente una parola: MAMMA.

La scrittura in stampatello era indubbiamente quella di un bambino, perché partiva molto grande e si riduceva sempre di più man mano che finiva lo spazio, come se ogni lettera fosse scritta con qualche punto in meno sul computer. L’ultima A, piccola e affusolata, sembrava quasi una i, e la cosa mi fece subito tenerezza. “Non si raccolgono le cartacce da terra” mi diceva la mia, di mamma, eppure la tentazione di prendere quel fazzoletto ed aprirlo era irresistibile.

Dopo essermi guardato intorno per verificare che nessuno mi vedesse, lo presi e lo aprii. Scoprii che MAMMA era solo l’ultima parola di una frase scritta nelle stesse modalità, un pò irregolari ma coerenti, che recitava così: SEI BELLISSIMA, MI MANCHI TANTO MAMMA.

Guardandomi intorno non vidi nessuno che potesse reclamare quel biglietto, quindi lo misi in tasca e continuai a caminare verso il mio posto di lavoro, la piscina. Durante la giornata, il pensiero di cosa ci fosse dietro quella breve frase, mi tormentò incessantemente. Un bimbo che non vedeva la mamma da molto? Magari figlio di genitori separati, oppure costretto a stare dai nonni tutto il giorno perché la mamma lavora, oppure addirittura senza mamma.

Camminando per il piano vasca, guardavo le mamme sedute sulla tribunetta della piscina. C’era chi chiacchierava, chi parlava al telefono, chi leggeva un libro, ma tutte non staccavano gli occhi dal loro bambino, e ogni bambino, finita la vasca, fatto un tuffo, imparato un nuovo esercizio, guardava immediatamente la tribuna per cercare l’approvazione della mamma. Una cosa così normale, quel giorno mi sembrò eccezionale.

Sentivo in tasca il fazzoletto pulsare, come se volesse vivere di vita propria, e allora lo tirai fuori, lo guardai e decisi di appenderlo nella bacheca degli avvisi che c’era all’ingresso della piscina. Per qualche giorno rimase lì, tra l’indifferenza di molti e la curiosità di qualcuno, che si fermava a leggere, faceva un sorriso e usciva dalla piscina. Non so perché lo misi lì: forse era solo per dare un messaggio di dolcezza o perché mi sentivo in colpa per averlo raccolto da terra. Nessuno però sembrava reclamarlo, quindi iniziai a mettermi il cuore in pace.

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Fino a quando, un giovedì pomeriggio di diversi giorni dopo, mi venne a chiamare una mamma. Prendendomi da parte, mi portò davanti al fazzoletto e mi disse: “Dove l’hai trovato?”.

Le raccontai la storia, quasi giustificandomi, di come era adagiato su marciapiede e di come sembrava avermi chiamato verso di sé, per prenderlo e portarlo via.

La mamma mi guardò negli occhi: “L’ha scritto mia figlia”. Per un attimo ho avuto paura, ma la donna si voltò e mi indicò la bambina che stava per uscire dagli spogliatoi per correre verso di lei. “In quei giorni io ero all’ospedale per un intervento e lei mi fece avere dei biscotti, incartati uno ad uno, ognuno con un fazzoletto sul quale c’era una frase. Li ho conservati tutti, mi mancava solo questo.”

Mamma e figlia si guardarono negli occhi, si presero per mano e mi ringraziarono, portandosi via il fazzoletto. La mamma zoppicava, ma questo non gli impediva di caricarsi la borsa della figlia sulle spalle e portarla giù per la lunga scalinata, fino al parcheggio della piscina.

Qualche tempo dopo scoprii che aveva avuto un problema alla gamba destra, che fu poi amputata, e che un’infezione se la portò via circa due anni più tardi. Ora la figlia fa il medico e spesso la trovo in piscina a nuotare. Nella corsia accanto alla mia fa un sacco di vasche e, quando si ferma, alza lo sguardo verso la tribuna.

L’altro giorno mi ha detto: “Io la vedo ancora lì, con il suo libro, ad aspettare il mio sguardo mentre finisco l’esercizio, e a sorridermi. ERA BELLISSIMA, MI MANCA TANTO.”