Dopo quasi un anno di inattività e più di otto mesi di silenzio, Caeleb Dressel è tornato a gareggiare e a parlare.

Lo ha fatto in occasione dei Trials USA di Indianapolis, ai quali ha partecipato in alcune delle sue gare classiche come i 50 ed i 100 farfalla. Nonostante non ci fosse motivo per aspettarsi prestazioni eclatanti, visto il lungo periodo di inattività, la sua presenza ha rischiato di oscurare quella di molti altri atleti e le notizie delle sue ‘non prestazioni’ hanno fatto più rumore di tanti altri tempi da top5 mondiale.

Si tratta pur sempre del miglior nuotatore del mondo, ed il nuoto è uno sport che si valuta in base ai tempi. Lo sappiamo noi e lo sa anche Dressel, che se ha deciso di andare ad Indianapolis a nuotare due secondi più lento dei suoi tempi abituali era perfettamente consapevole di cosa sarebbe successo poi, a livello mediatico. 

Per avere degli esempi, basta fare delle semplici ricerche sul web, troverete un ventaglio di titoloni contenenti le parole bocciato o fallimento, le frasi sorridente nonostante non sia in finale o i Mondiali restano un sogno. Ma siamo proprio sicuri che sia l’unico modo in cui si può raccontare questa storia?

Facciamo un passo indietro.

A Budapest 2022, poco dopo aver vinto i 50 farfalla, Dressel ha lasciato all’improvviso i Mondiali di nuoto, senza dare spiegazioni precise sulle motivazioni di tale scelta.

Inizialmente i motivi sembravano poter essere fisici, e c’era chi addirittura aveva ipotizzato uno stato di forma imperfetto e una certa “paura” di confrontarsi con rivali più in palla di lui. Presto ci si è resi conto che la condizione fisica c’entrava ben poco, il problema era mentale. Non è stato un fulmine a ciel sereno: Dressel non ha mai nascosto il suo lato più debole, spesso ha apertamente parlato di pressioni e salute mentale, contrapponendo i suoi pensieri e le sue dichiarazioni a quello che di lui una certa stampa – anche di settore –  voleva far passare. 

Ha fatto lo stesso anche in occasione del suo rientro a Indianapolis, concedendosi ai microfoni a termine della settimana di gare per raccontare i suoi ultimi mesi. Le sue parole sono state semplici e chiare, le sue affermazioni non contengono nulla di scioccante, ma sono ancora una volta preziosissime anche da un punto di vista simbolico, per far emergere quello che un atleta – e un uomo – può attraversare quando ha a che fare con problemi di salute mentale. Andrebbero ascoltate con attenzione

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Dressel ci ha detto che la pressione di dover essere sempre il migliore, di non aver scelta se non quella di vincere dominando, di essere sotto i riflettori ad ogni uscita lo ha incatenato, facendolo allontanare dalla serenità necessaria per poter praticare lo sport in modo redditizio. Dressel ha fatto una scelta coraggiosa: ha avuto la forza di fermarsi, allontanarsi da tutto ciò che intossicava la sua salute mentale e rimettere in piedi la sua vita.

Ce lo ha raccontato con i fatti, prima ancora che con le parole, e sarebbe bastato osservare con attenzione le sue mosse per capirlo. Invece abbiamo perso un’altra occasione per dare più importanza all’essere umano che all’atleta, cadendo nel solito tranello della superficialità.

Non ci siamo fatti mancare niente, titoloni e giudizi negativi, salvo poi, il giorno dopo, correggere il tiro in seguito alle sue dichiarazioni, dalle quali traspariva chiaramente che, in questo momento, le gare ed i tempi sono in secondo piano rispetto alla serenità, alla ritrovata voglia di allenarsi, per esempio.

Quindi mi chiedo: ora che Dressel ha parlato, siamo sicuri di averlo davvero ascoltato?

Perché non bastano due righe dove si riportano le sue parole (trattandolo come una macchietta), non basta citare Simone Biles o Michael Phelps, non basta nemmeno dire che il problema della salute mentale è “il male dei nostri tempi”. Serve un approccio diverso, serve un mondo dove un problema psicologico non sia più un tabù, dove si accetti che non tutti siamo uguali e che anche star male fa parte della vita, e parlarne apertamente è la base per trovare una soluzione. 

La notizia dell’infortunio fisico di un atleta viene sempre riportata in maniera seria, i toni sono spesso tecnici e medici, l’empatia verso la persona è palpabile. La sua guarigione, magari in tempi velocissimi, è incensata ed esaltata come un miracolo, il suo ritorno alle competizioni è visto come un atto eroico.

Tutto giustissimo, ma perché un atleta che rientra dopo un periodo di difficoltà mentale non viene trattato allo stesso modo? Cosa deve ancora succedere per accettare il fatto che soffrire di depressione, di ansia, di attacchi di panico non è meno importante che rompersi un legamento?

Spesso, purtroppo, ci accorgiamo di quanto possano essere pesanti i problemi mentali solo quando, ormai, è troppo tardi. Siamo tutti giustamente sconvolti dalle tragedie che, purtroppo, a volte toccano da vicino le nostre vite. Siamo increduli davanti a ciò che la mente umana può fare quando smette di connettersi alla realtà. Siamo mortificati se non siamo stati in grado di cogliere, di capire, di intervenire. 

Il giorno dopo, tuttavia, siamo pronti a giudicare, a stroncare, a bocciare le prestazioni di un atleta che, ai nostri occhi, ha fallito, mentre invece ha appena vinto la gara più importante della sua vita.

E noi non ce ne siamo nemmeno accorti. 

Foto: Fabio Cetti | Corsia4