Abbiamo parlato di Lia Thomas ormai due anni fa, e nel frattempo qualcosa è cambiato.

In seguito ai suoi risultati sportivi ottenuti dopo la transizione uomo-donna, il dibattito sull’inclusione degli atleti transgender è diventato di dominio pubblico, e le Federazioni internazionali si sono dovute muovere di conseguenza. World Aquatics ha, per la prima volta quest’anno nella World Cup, introdotto la categoria “open”, nella quale si sarebbero potuti iscrivere tutti gli atleti che hanno seguito lo stesso percorso di Thomas, ma la casella è rimasta vuota.

La stessa atleta di UPenn, dopo aver gareggiato e vinto un titolo NCAA tra le donne nel 2022, non si è più vista nelle competizioni, anche perché le è stato proibito gareggiare nella categoria femminile, decisione presa da World Aquatics in seguito ad uno studio effettuato da esperti di diritti umani, biologia dello sviluppo e diritto sportivo durato più di nove mesi (secondo le regole vigenti, gli atleti trans devono gareggiare nella categoria del loro sesso biologico originario).

Ora, la nuotatrice ha chiesto alla Corte di Arbitrato per lo Sport (CAS) la possibilità di ribaltare questa decisione: il suo obiettivo dichiarato è partecipare ai Trials americani. Realisticamente, per Parigi 2024 i tempi sono strettissimi, perché non si tratta solo di aspettare la risposta (positiva o negativa) del Tribunale, ma anche del fatto che World Aquatics, USA Swimming e il CIO stesso accolgano questa eventuale sentenza e riscrivano le proprie regole, provocando un effetto a cascata non solo sul nuoto ma su tutti gli sport nei quali il sesso è riconosciuto come un effettivo vantaggio.

Fonti vicine a Thomas, che finora aveva lasciato che il processo restasse su una base confidenziale, dicono che il vero obiettivo potrebbe essere continuare la battaglia legale per diventare eleggibile entro il 2028.

Come sempre, le mosse di Thomas hanno alzato un polverone di pareri più o meno aspri sul discorso inclusione nel mondo dello sport e non solo. Già in seguito alla sua vittoria NCAA di ormai due anni fa, molte atlete avevano sollevato il problema ritenendo che non fosse giusto, dal punto di vista della competizione, che la nuotatrice potesse competere con le donne avendo in realtà cambiato sesso dopo la pubertà, e quindi avendo mantenuto i vantaggi fisici.

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Su questo punto, Riley Gaines, che ha condiviso la quinta posizione con Thomas nelle 200 yards alle NCAA Finals, è stata tra le più dure: “Non abbiamo dato il nostro consenso a un maschio adulto di essere nel nostro spogliatoio, spogliarsi e vederci spogliare, non è qualcosa che ci aspettavamo. E quando l’abbiamo fatto presente, ci è stato detto di stare zitte o avremmo rischiato i nostri posti al College. Oltre a questo, c’è l’aspetto delle prestazioni: alle femmine non dovrebbe essere chiesto di cercare di battere i maschi, questo è ingiusto e discriminatorio”.

I risultati di Thomas parlano chiaro: tra i maschi aveva ottenuto un 65° posto come miglior piazzamento universitario, mentre tra le donne sarebbe tra le venti migliori al mondo. Sharron Davies, una voce di spicco tra i critici degli attivisti transgender e autrice anche di un libro insieme al noto giornalista Craig Lord, dice al Times: “Questa storia non ha nulla a che fare con l’inclusione e tutto a che fare con il vantaggio, e lo si capisce dal fatto che la categoria Open introdotta per la World Cup dalla FINA è stata un fallimento. Se fosse stato un invito per le donne trans a correre con le donne, invece, penso che avremmo avuto il pienone.”

Il direttore di World Aquatics Brent Nowicki ha commentato così la vicenda: “La politica World Aquatics sull’inclusione di genere, adottata nel giugno del 2022, è stata rigorosamente sviluppata sulla base dei consigli dei principali esperti medici e legali e in attenta consultazione con gli atleti. World Aquatics rimane fiduciosa che la sua politica di inclusione di genere rappresenti un approccio equo e rimane assolutamente determinata a proteggere lo sport femminile”.

Di tutta questa vicenda, ci sono davvero troppe sfaccettature e angolazioni perché il punto di vista possa essere di facile espressione, e anche comprensione, e non a caso se ne dibatte da tempo non solo nel nuoto.

È chiaro che lo sport di prestazione ha al centro per sua stessa natura il fisico, ed è altrettanto chiaro che un maschio ha una conformazione fisica che gli permette di essere, di base, avvantaggiato su una femmina in molte attività. Proprio per questo le categorie basate sui sessi non sono discriminanti ma, al contrario, garantiscono equità di partenza alla competizione. È inverosimile che Thomas o un’atleta con le sue caratteristiche possa un giorno gareggiare e vincere medaglie internazionali, e di questa cosa se ne rende conto anche Lia Thomas, avendolo sperimentato non senza difficolta sulla sua stessa persona.

La domanda quindi è: cosa vuole realmente Lia Thomas?

La sua mi sembra una battaglia di ideali, più che sportiva.

Forse lo scopo, suo e di chi la aiuta a sviluppare la causa, non è vincere le Olimpiadi ma vincere una certa opposizione intollerante, che la guarda (quella sì) con occhi discriminatori ogni giorno della sua vita.

Probabilmente è per questo che Thomas è disposta a subire la gogna pubblica quotidiana alla quale è sottoposta da due anni, è disposta a sentirsi definire imbrogliona, è disposta a venire attaccata da chi a sua volta è quotidianamente attaccato e discriminato, provocando un corto circuito di discriminazioni che è sotto gli occhi di tutti.

Perché in fondo la sua battaglia non è molto diversa da quella delle minoranze di qualsiasi tipo, e forse non porterà da nessuna parte proprio come molte di quelle battaglie, ma comunque necessita che qualcuno la combatta. Anche se l’unica vittoria possibile sarà quella di farci riflettere.

Foto: Fabio Cetti | Corsia4