Bentornati a Fatti di Nuoto Weekly, il vostro appuntamento fisso del mercoledì con il nuoto vissuto come va vissuto. Chiaramente ognuno ha il suo modo, ma quello di guardare le gare la notte, con la tranquillità ed il silenzio intorno a me, si avvicina molto alla mia personalissima idea di perfezione. Se non fosse…

…Se non fosse che di giorno si lavora e che l’età avanza, e quindi i postumi di una settimana abbondante a seguire americani ed australiani lottare (nel cuore della notte italiana) per un posto nel Team Olimpico hanno gli effetti della privazione del sonno applicata ai detenuti di Guantanamo.

Ne è valsa la pena? Sì.

Lo rifaresti? Sì.

Ti senti bene? Sono stato meglio.

USA

Però ragazzi che spettacolo, e non parlo solo di tempi (che comunque…). Cioè, i trials americani sono l’anello di congiunzione tra il nuoto e il cinema epico, pieni di pathos, di attesa, di storie che si intrecciano, di percorsi che finiscono e avventure che iniziano.

Abbiamo avuto l’amore, nella storia di Annie Lazor e Lilly King – la prima da quasi ritirata ha trovato nella seconda la compagna perfetta per riuscire a tornare al nuoto con successo – un esempio di come a volte lo sport vada oltre la mera lotta per chi arriva primo e si spinga all’amicizia, all’amore fraterno, al vero senso della vita.  C’è stata la sofferenza di Simone Manuel, che non sarà nei 100 stile olimpici ma “solo” nei 50 – dalla quale abbiamo capito che non è semplice essere sempre al posto giusto nel momento giusto, nemmeno per una come lei che lo aveva fatto sembrare la normalità.

Il percorso di Tom Shields, dalle Olimpiadi alla depressione, al tentato suicidio e poi ancora alle Olimpiadi: lo sport come maledizione e redenzione. E poi il tocco di tragedia: la mancata qualificazione di Regan Smith nei 200 dorso (solo terza, fuori dalla gara in cui la davamo tutti per favorita), è forse l’upset più grande della settimana, l’ingiustizia che fa parte del gioco.

In nessun posto come negli USA c’è un ricambio generazionale così elevato e continuo, ma nella settimana di Omaha abbiamo assistito ad una vera e propria fine di un’era.

Michael Phelps, ritirato, per la prima volta dal 2000 era tra il pubblico ai Trials, ed ha assistito all’addio di Ryan Lochte, Anthony Ervin, Matt Grevers e Nathan Adrian, un pezzo di storia del nuoto americano che lascia spazio ad una generazione nuova.

Capitanata da Caeleb Dressel e Michael Andrew, che insieme a Ryan Murphy sono chiamati a vincere il maggior numero di ori possibili in Giappone e a contrastare l’assalto dell’Australia.

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AUSTRALIA

Poi c’è la terra down under, un posto dove vivono il nuoto come una religione e dove hanno nuotato dei trials di un livello a tratti strabiliante, talmente tanto che c’è già chi si interroga sulla possibile tenuta fino alle Olimpiadi. E se a Tokyo ci fosse un calo di forma? Non sarebbe la prima volta, ma dubito che ci sia stato un errore così grossolano di programmazione. E se invece non ci fosse? Kaylee McKeown, per esempio, sarebbe imbattibile, e così anche Ariarne Titmus e le staffettiste. Brutte notizie per il resto del mondo.

Anche in Australia, a pathos non siamo andati male. Sarà per la produzione by Amazon (a me è piaciuta molto) che ha accentuato lo storytelling, oppure sarà un caso, ma non sono mancate storie shock, come quella di Mack Horton escluso (perché arrivato terzo) dai 400 stile, che non sarà della gara a Tokyo così come il suo nemico Sun Yang, al quale il TAS ha ridotto ma non annullato la squalifica.

O come l’esclusione in vasca, e successivo reintegro d’ufficio, di Matt Wilson nei 200 rana, uno strappo alla regola dettato dal buon senso che va apprezzato.

REGOLE = SPETTACOLO?

Ni. Quelle dei Trials sono regole da accettare, non necessariamente da copiare, ma da osservare con interesse. L’evento Trials è un unicum, un concentrato talmente irripetibile che ha senso proprio perché immerso nella sua realtà.

In Italia funzionerebbe? Aumentare la dinamica da dentro/fuori basterebbe per costruire uno spettacolo sportivo sempre migliore? Forse la domanda giusta non è questa.

Guardando i Trials americani e australiani mi sono convinto ancor di più che lo sport, il nuoto in questo caso, ha già in sé molte delle componenti che servono per soddisfare gusti ed emozioni di chi guarda. Basta saperlo raccontare nel modo giusto, trovare storie scavando sotto la superficie, provare a conoscere e far conoscere meglio i protagonisti, lo sport in sé.

La tendenza molto italiana a raccontare solo il super campione (che ci vuole, intendiamoci), a viaggiare per cliché e frasi fatte, è deleteria. Ridurre tutto ad una sequenza di tempi, alla lunga porta alla noia. Provare a spingersi un po’ oltre, sia nel racconto tecnico che umano, è la via.

Vale per tutti i media, carta, tv e internet, presenti inclusi.

-31 A TOKYO…

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