I protagonisti sono quattro volti noti del nuoto di down under: due nuotatori Olimpici, Bronte Campbell e Kyle Chalmers, la leggenda Ian Thorpe e Cody Simpson, musicista ed ex teen idol dal passato brillante nel nuoto giovanile.
In Head Above Water, ognuno di loro si racconta in prima persona, aprendosi al pubblico e dando un’idea più ampia di cosa sia il nuoto, il tutto contestualizzato nel periodo di preparazione ai Trials Olimpici dello scorso anno. Ne esce uno spaccato della loro vita nel periodo subito precedente Tokyo 2020, nella quale il nuoto occupa naturalmente una posizione centrale, come dice splendidamente proprio Bronte Campbell:
Mi chiedono spesso cosa ho sacrificato per il nuoto, ma la domanda non mi piace perché presuppone che nella vita si possa fare tutto. Non ho sacrificato niente, ho fatto delle scelte.
Scegliere il nuoto elimina tutte le altre scelte. Mi sono persa qualcosa, ma è sempre stata una mia scelta. Scegliendo il nuoto ho scelto di perdermi il resto. È ciò che sognavo fin da bambina e non mi lamento di quello che ho fatto per arrivare qui.
Ciascuno dei quattro protagonisti è seguito dalle telecamere in gesti giornalieri, dagli allenamenti alla preparazione di una riunione fino alla semplice routine domestica, ed ognuno è intervistato in prima persona ed è voce narrante della propria singola storia. Nonostante siano tutti e quattro nuotatori ed abbiano quindi obiettivi simili, la loro esperienza nello sport è molto differente, ed il documentario punta proprio su questa cifra narrativa per raccontare al meglio cosa sia il nuoto.
Con Bronte Campbell si parla di lockdown, della difficoltà di allenarsi da soli e di essere lontano da affetti e compagni di squadra. Con Kyle Chalmers si scopre quanto sia difficile, dopo essere stati giovanissimi campioni Olimpici, provare a riconfermarsi, affrontando infortuni ed ostacoli più o meno grandi.
Con Ian Thorpe si cerca di capire quanto possa essere pesante e ingombrante una carriera da star in giovane età e quanto sia fondamentale pianificare la vita dopo lo sport professionistico. Con Cody Simpson emerge la parte più passionale, quella del richiamo dello sport come sfida quotidiana con la vita e, soprattutto, con sé stessi.
Tutte esperienze molto diverse che portano però ad un comune obiettivo, quello di essere parte della squadra nazionale australiana, i Dolphins, e di coronare il sogno Olimpico.
Proprio la visione dello sport e della sua valenza da angolazioni diverse è la forza di questa produzione che definire mastodontica è, per noi in Italia, tutt’altro che un eufemismo. Il nuoto in Australia è sport nazionale e i nuotatori, soprattutto quelli Olimpici, sono idolatrati al pari dei nostri calciatori, e per questo motivo si tratta di un prodotto che difficilmente vedremo contestualizzato in altre realtà. La qualità delle immagini, della regia e della fotografia è degna dei migliori documentari sportivi in circolazione, perfino superiore ad Underwater di Federica Pellegrini, e le riprese dei paesaggi australiani aggiungono suggestione e romanticismo al racconto.
Il risultato visivo è quindi molto apprezzabile e la serie scorre via veloce, lasciandosi guardare piacevolmente, ma sul contenuto si poteva fare qualcosa di più.
Nonostante siano raccontate molte delle difficoltà che i nuotatori hanno quotidianamente, in alcune parti la narrazione risulta un po’ patinata, come se mancasse quel pizzico di cruda realtà che avrebbe reso il prodotto perfetto. Tra i passaggi che più sembrano artefatti, c’è quello del litigio tra Cody Simpson ed il suo coach, Brett Hawke, al termine del quale i due si esibiscono in un allenamento congiunto che ripara il presunto strappo ma che è troppo bello per essere vero. Anche alcune scene di Bronte Campbell che insegna ad un gruppo di bambini, per quanto lodevoli, sembrano essere messe lì appositamente e sorge il dubbio che per la velocista non fosse un’abitudine relazionarsi con i più giovani.
Ian Thorpe, o Thorpie come vuole essere chiamato lui stesso, è sempre molto abbottonato, come se riuscisse raramente ad abbattere il muro che negli anni ha eretto per proteggersi dalla realtà esterna e vivere una vita serena. Il suo impegno politico per la tutela delle minoranze lo ha fatto diventare un bravo oratore, ma con frasi fin troppo prestabilite ed un tono dialettico perfetto per dire tutto e niente. Il più sincero di tutti sembra Chalmers, che si presenta sempre molto sicuro di sé al limite della spacconeria, ma i particolari della sua vita privata, dall’amore per i rettili al rapporto con gli amici, sono tra i più interessanti e divertenti della serie.
Nonostante lo sforzo narrativo degli autori sia chiaro, alla fine di Head Above Water la sensazione è di aver assistito ad una lunga preview di una qualsiasi gara, come i Nazionali australiani, casualmente prodotti e trasmessi da Amazon. Per dimensioni del progetto in sé, francamente, mi sembra un vero spreco.
I temi più pregnanti – il fine carriera, la depressione. le politiche di inclusione – sono trattati superficialmente, ridotti a qualche frase fatta di matrice standard. Manca lo spazio (e forse anche la voglia) di grattare la superficie e scavare in profondità, per dare realmente un’idea di cosa possa voler dire, ad esempio, portarsi dentro per anni il segreto dell’omosessualità in un ambiente così poco comprensivo come quello dello sport professionistico, o di cosa sia davvero il sacrificio quotidiano di un nuotatore che prepara un quadriennio olimpico.
Con le risorse di Amazon a disposizione, forse era preferibile produrre un docufilm per ciascuno dei personaggi e non intrecciare in modo così ritmato i quattro racconti, cercando di andare a fondo per far emergere particolari più interessanti dei quattro atleti. A partire, per esempio, dalla vita sportiva e non di Ian Thorpe.
E voi, lavete visto? Cosa ne pensate?