Il nuoto è la mia passione.

Mi piacciono le gare, l’adrenalina che si prova nel farle e le emozioni che si possono raccontare nel vederle. Mi piace il gesto tecnico, la bracciata lunga, la gambata propulsiva, la partenza esplosiva.

Mi piacciono le storie che raccontano gli atleti, la loro vita, i sacrifici, le esperienze che li portano alle competizioni. Mi piace sentirli parlare di come la vivono, vedere negli occhi le loro emozioni, sentire cosa hanno da dire gli allenatori.

Tutto fantastico e bellissimo, ma se dovessi rispondere alla domanda “Cosa ti piace davvero del nuoto?” direi: il silenzio.

Se dopo una giornata di lavoro sei incazzato col mondo e non ne puoi più di sentire colleghi e capi sbraitare, ti tuffi in piscina e sai che per un’ora le tue orecchie non dovranno sentire altro che l’incessante ed eterno scrosciare dell’acqua. Se la vita ti è avversa, ma anche se ti sorride, ci sarà sempre un momento in cui sai di poterti immergere nella piscina e nel suo infinito rumore bianco, cadenzato solo dal soffio della tua respirazione e del tuo corpo che nuota. Se queste sono alcune delle cose che rendono il nuoto in piscina un’attività fisica ma anche filosofica, il tutto trasportato nel mare lo è ancora di più.

Non sono un grande nuotatore di mare, una cosa che condivido con molti altri piscinari come me, o almeno così mi sembra. Per esempio, in una settimana di vacanza sul Tirreno la casella delle nuotate in spiaggia è rimasta a zero, anche a causa delle onde e del vento, mentre nella piscina dell’hotel facevo i doppi (bagnetti, si intende, ma sempre doppi). Però se sono in presenza di un bel mare calmo e limpido, non disdegno affatto la nuotata, e la cosa che mi piace di più è sempre il silenzio. Guardando “Respiro profondo” su Netflix, il silenzio mi ha fatto paura.

Quello delle immersioni è un mondo affascinante, forse anche un pò inflazionato, soprattutto nelle zone più turistiche e commerciali. In molti si improvvisano istruttori e ancora di più sono gli esperti imbonitori, ma va detto che poche cose sono emozionanti come un’immersione in mare.

Il mondo subacqueo ha qualcosa di onirico: proprio come in certi sogni i nostri movimenti sono rallentati, le azioni sono ovattate, la possibilità di interagire è ridotta. Da quel poco che ho capito, mi sembra che la parola d’ordine sia rispetto, dell’ambiente e dei suoi abitanti.

Tra le varie tipologie di immersione, credo che quella in apnea – senza l’ausilio di attrezzature – sia per definizione quella più rispettosa. Trattenere il fiato e nuotare sott’acqua, anche solo per un minuto, è un’attività che necessita di concentrazione, allenamento e sincronia con l’ambiente circostante. Ed è l’attività più silenziosa che conosca, visto che i suoi nel fluido non si propagano certo come nell’aria.

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Guardando le immagini di Alessia Zecchini, campionessa Mondiale e detentrice di svariati record, che si immerge nell’oceano alla ricerca dell’ennesima prestazione incredibile, spingersi sempre al limite dell’umanamente possibile (e spesso anche oltre) ho provato angoscia.

Il silenzio e l’oscurità che ci sono a cento e più metri di profondità sono spaventosi anche solo da guardare su uno schermo, non oso immaginare dal vivo. La stessa Zecchini, nel documentario dice di aver avuto problemi col buio e con la gestione mentale di quei momenti, ed in questo è stato fondamentale l’aiuto di Steven Keenan, famoso apneista e capo dei soccorsi ufficiali delle competizioni, che per un certo periodo di tempo è stato suo coach.

Il documentario racconta proprio l’incontro tra i due ed il metodo che Keenan ha trovato per far rendere al massimo Alessia e farle superare alcune sue difficoltà, tecniche e psicologiche, quando era al top ma non riusciva a migliorarsi.

Ma oltre al lato quasi scientifico necessario per performare in questo sport, la parte mentale è di sicuro l’aspetto più interessante che emerge. Per essere un apneista di quel livello, o anche solo per provarci, ci vogliono consapevolezza, controllo, calma.

Bisogna essere in grado di alienarsi dal mondo intero e concentrarsi sul respiro – profondo, appunto -, essere allo stesso tempo presenti sulle procedure da rispettare al centesimo di secondo ma distanti da ciò che c’è intorno e può distrarre. Complicato, molto complicato, non per tutti.

Respiro profondo” è la storia di due professionisti e della loro storia sportiva e umana, di come le cose possono andare benissimo ma anche malissimo, quando si gioca sul filo di lana di ciò che un uomo può sostenere e di ciò che invece può farlo sprofondare.

Ma se vogliamo trarre un insegnamento per tutti “Respiro profondo” ci insegna ad ascoltarci, a trovare la strada per superare i nostri ostacoli nella vita o almeno per provarci. Ci insegna che spesso non basta il talento, ci vuole metodo, che l’impegno non è sufficiente senza l’intelligenza, che la gara più dura è sempre quella con noi stessi.

E che il silenzio potrà anche farci paura ma a volte è necessario, per ritrovarci e andare avanti.