Vincere non è la cosa più difficile.

Nei discorsi dei grandi atleti, quella della montagna è una metafora che ricorre spesso: la scalata verso la vetta è complicata, richiede abnegazione, dedizione, fortuna, fatica, ma ancora più difficile è rimanerci, su quella vetta.

In alto, soffia un vento fortissimo, che rende un’impresa perfino il restare in piedi. Ti può mancare l’aria, a quelle altezze, la tua mente può prendere deviazioni incomprensibili, deleterie. Ti puoi sentire appagato arrivato, e quello sarebbe il tuo più grande errore. È proprio in quel momento, che potresti perdere l’equilibrio e scivolare, precipitare giù dove la salita sarebbe ancor più difficoltosa, se non impossibile.

Ognuno ha la sua vetta, che sia l’oro Olimpico o la partecipazione ai Campionati Italiani, ed ognuno ha la sua scalata. Per tutti la fatica è enorme, perché arrivare a superare i propri limiti non è mai facile.

Ma c’è un’altra cosa che non è per niente facile: capire quando è arrivato il momento di smettere.

Carriere Infinite

Le carriere degli atleti, a quasi tutti i livelli, sono sempre più lunghe.

Valentino Rossi, 42 anni, Gianluigi Buffon, 43, Roger Federer, 41, sono i casi più clamorosi di campioni ancora in attività ad alti livelli nonostante l’età. Comunque sia, nella media, l’asticella del ritiro si è alzata abbondantemente sopra i 30, età considerata limite per molti degli sport che richiedono un elevato impegno fisico. Perfino nella ginnastica artistica, sport storicamente riservato alle ragazze giovanissime, sta assistendo all’ennesima stagione da protagonista di Vanessa Ferrari, 30 anni suonati.

Nel nuoto, il caso limite è Nicholas Santos, 41 anni, ancora in grado di nuotare tempi vicini al record del mondo nella sua specialità, ed abbiamo avuto Dara Torres, medaglia a Pechino 2008 a 41 anni. Ma anche i nuotatori sono ormai proiettati verso una più lunga permanenza in piscina, ben oltre quello che qualche anno fa veniva comunemente pensato come “il momento giusto”.

Smettere

Nessuno può dire ad un atleta quando sia effettivamente arrivato il momento di smettere, se non l’atleta stesso. E non esiste in realtà un momento giusto, perché i fattori da tenere in considerazione sono troppi. Un grave infortunio? C’è chi recupera e ritorna, non ha importanza se più o meno forte di prima. Un rivale più forte, imbattibile? Il senso dello sport non dovrebbe essere solo nella vittoria, ma anche nel processo che ti porta a prepararti per la tua sfida.

In alcuni sport questa decisione potrebbe sembrare più semplice. Sono stato un giocatore di alto livello ma nessuna squadra mi offre più un contratto o mi fa giocare titolare. Oppure, non riesco più a qualificarmi per i grandi eventi, dove un tempo ero protagonista. Nel nuoto, le preparazioni sono facilitate dalla suddivisione classica in quadrienni olimpici, e spesso i grandi atleti considerano la partecipazione ai Giochi la fine di un ciclo, quindi a volte “il momento giusto”.

In molti cercano l’opportunità per chiudere la carriera in grande, ma spesso si perdono nell’accanimento di questa ricerca, non accorgendosi che il momento giusto è probabilmente passato. Nessuno vuole vedere un grande campione arrancare nello sport dove è stato un mito, nemmeno il campione stesso, ma spesso la ricerca di nuovi trionfi è un motore troppo potente per spegnerlo così, d’improvviso. Se ho appena vinto, perché mai dovrei ritirarmi?

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Pianificazione

Il discorso diventa poi molto serio se consideriamo che, dietro il ritiro dall’attività agonistica, c’è un mondo di processi psicologici da affrontare con estrema cautela.

Succede di frequente che un campione non sia abbastanza preparato alla scelta di smettere con il proprio sport, che ne va di mezzo anche la sua salute mentale. Ci sono molti atleti che cadono in depressione, sperperano il proprio patrimonio, rovinano la propria esistenza, proprio perché non erano stati in grado di elaborare con cura il momento giusto.

Gli esperti consigliano un approccio scientifico alla questione, fatto di preparazione (sviluppare nel tempo interessi diversi, arrivare gradualmente al ritiro, continuare la propria formazione personale) e di evoluzione (immergersi in un nuovo lavoro, circondarsi di persone che ti possono aiutare economicamente e mentalmente), per non cadere nell’errore di semplificare il tutto.

Ma il timing deve essere prerogativa dell’atleta e di nessun altro.

Everest

Tornando alla metafora della scalata, la metafora della carriera sportiva di un atleta è ben rappresentata nel film Everest, diretto da Baltasar Kormakur nel 2015, che racconta del tentativo di scalata turistica della montagna più alta del mondo nel 1996.

A partire sono in tantissimi, alcuni più attrezzati di altri, tutti con il sogno comune di arrivare in cima. In pochi sanno che la vera sfida non è raggiungere la montagna più alta del mondo, ma capire quando, se e come farlo, e riconoscere il momento in cui è giusto fermarsi e tornare indietro.

In pochi arrivano in vetta, non tutti sono preparati e anche i più esperti commettono gravi errori di valutazione. La bufera è dietro l’angolo e le opzioni sono due: evitarla o essere preparati a superarla.

In entrambi i casi bisogna aspettare il momento giusto.

Foto: Fabio Cetti | Corsia4