Nella vita di Domiziano, ultima delle biografie dei primi dodici imperatori romani scritte nella prima metà del II secolo d.C. da Svetonio, si racconta come il figlio minore di Vespasiano amasse ripetere “princeps qui delatores non castigat, irritat”.

Come dire: la persona che, pur avendone l’autorità, non punisce i calunniatori, li incoraggia.

Questa frase mi è tornata in mente in questi giorni, mentre leggevo con sempre maggiore sconcerto il vorticoso succedersi di notizie legate alla questione del doping, che sta segnando la vigilia di questa Olimpiade.

Mi sono infatti ritrovato a riflettere su quanto fosse adatta a commentare il comportamento del CIO, dato che a distanza di quasi venti secoli i fautori del doping possono certo essere considerati i “calunniatori” del buon nome dello sport!

La massima autorità sportiva mondiale che, di fronte alla documentazione – impressionante, a detta di chi l’ha potuta consultare – contenuta nel rapporto indipendente della WADA stilato dal giurista canadese McLaren sulle irregolarità nelle procedure antidoping commesse dall’agenzia russa, con l’avallo (ed è questo, chiaramente, a rendere stra-ordinario il caso) delle più alte cariche dello sport e della politica nazionale, non se l’è sentita di “punire” i responsabili di quella che si configura come la più grave e sistematica alterazione di risultati sportivi avvenuta nel nuovo millennio.

Si chiedeva da più parti un segnale forte del CIO, un’esclusione totale degli atleti di una nazione la cui agenzia antidoping aveva sistematicamente coperto da almeno 6 anni un numero imprecisato di casi di positività. È arrivato invece, come si sa, solo un flebile richiamo ai valori della Carta Olimpica, scaricando sulle singole Federazioni internazionali la responsabilità di decidere caso per caso chi fossero gli atleti russi ‘puliti’ da ammettere alle competizioni di Rio.

Ma “caso per caso” nella giurisprudenza sportiva contemporanea equivale a dire “CAS per CAS”, nel senso di Court of Arbitration for Sport, ovvero quell’istituzione (a noi italiani più nota come TAS) cui un atleta può appellarsi per ottenere giustizia, quando ritiene siano stati lesi i suoi diritti.

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Non se ne deve essere accorto il CIO che, nel momento stesso in cui ha abdicato al suo ruolo di giudice dell’affaire doping di Stato in Russia, ha raccomandato alle Federazioni internazionali di usare come discrimine per l’ammissione dei singoli atleti ai Giochi Olimpici proprio il requisito di non aver mai subìto squalifiche per doping.

Così dopo la conseguente esclusione decretata dalla FINA di 7 nuotatori russi dall’elenco degli iscritti alle gare di Rio, è seguito l’immancabile ricorso da parte degli atleti al CAS che – abbandonata per l’occasione l’abituale sede del Château de Béthusy a Losanna – si è trasferito in pianta stabile in Brasile e, convocato in seduta perenne, fronteggia la raffica di ricorsi degli atleti (non solo russi) che invocano giustizia per i loro diritti violati.

A aumentare la confusione è arrivata sabato la decisione del CIO di istituire una commissione di tre membri cui è demandato il giudizio (non è chiaro se finale o a sua volta appellabile al CAS) sulla sorte degli atleti russi dichiarati eleggibili dalle singole Federazioni internazionali.

E mentre a soli tre giorni dalla cerimonia di apertura siamo ancora in attesa di conoscere ufficialmente l’esito dei ricorsi al CAS dei nuotatori russi (stando a una nota dell’agenzia TASS di qualche ora fa,  Morozov e Lobintsev sarebbero stati giudicati eleggibili), proviamo a immaginare cosa accadrebbe se la ranista russa Yulija Efimova, che si trovava appunto nella condizione indicata dal CIO come non ammissibile ai Giochi per essere stata in passato squalificata per doping, fosse riammessa. Vantando tempi eccellenti nei 100 e 200 rana sarebbe una seria candidata a conquistare una medaglia. E se fosse quella d’oro ascolteremmo lo speaker chiedere di alzarsi per ascoltare l’inno nazionale della Russia.

Impossibile immaginare un “incoraggiamento” migliore di questo!