Bentornati su Fatti di Nuoto weekly, la rubrica del mercoledì che arriva anche in piena lotta Trials USA / Australia, più puntuale di un World Record di Kaylee McKeown.

Rispondete a questa domanda: guardando le gare di Adelaide e Omaha, definireste i nuotatori coinvolti con la parola “professionisti”?

La risposta potrebbe essere più complicata del previsto.

In questo pezzo del sito State of Swimming è spiegato tutto alla perfezione.

Il punto di partenza è lo stesso di un paio di anni fa, lo stesso che ha spinto Katinka Hosszú e Michael Andrew a citare la FINA, lo stesso che ha convinto Grigorishin a fondare la ISL, lo stesso che ha fatto emergere in maniera prepotente i malumori di Adam Peaty e molti altri nuotatori.

Ora che il mondo sta tornando alla normalità, anche le esigenze dei nuotatori ritornano a galla e così la International Swimming Alliance, quello che qualcuno ha italianamente – ma erroneamente – chiamato il “sindacato” dei nuotatori, torna di moda. Matt Biondi come capo, Hosszú, Le Clos e Kromowidjojo in rappresentanza atleti e la richiesta sempre più insistente di avere voce in capitolo nelle decisioni che contano. Non userei la parola sindacato, perché è qualcosa di davvero lontano da quello che intendiamo noi, ma mi limiterei a tracciarne gli obiettivi proprio tramite le parole dei fondatori.

PROFESSIONISMO

Poco è cambiato nella struttura aziendale del nuoto professionistico da quando Tom Jager ed io siamo stati i primi veri nuotatori professionisti in America tre decenni fa.” Così si esprime Matt Biondi, re dello stilelibero di fine anni ’80 ed ora membro del direttivo dell’Alleanza, che però ci fornisce una definizione di professionismo non universale.

Negli States si diventa “pro” nel momento in cui si decide di abbandonare il circuito universitario, per accettare sponsorizzazioni esterne a quelle dei College. L’esempio principale è Michael Andrew, che si è dichiarato pro appena fuori dalle high school, sposando il progetto di mamma manager e papà coach, ma è una mosca bianca. La maggioranza dei nuotatori americani rimane legata alla NCAA per quasi tutta la carriera, continua ad allenarsi al College anche dopo la laurea, rimanendo con il proprio coach (i migliori sono a capo dei programmi Universitari più ricchi) e disponendo degli impianti migliori (che si trovano proprio nei College).

Un piccolo parallelo può essere fatto con ciò che accade in Italia con i gruppi sportivi militari. Un nuotatore italiano non può essere professionista nel vero senso della parola, perché non esiste un inquadramento lavorativo che preveda questa possibilità. Il nuoto – così come moltissimi altri sport – rimane comunque uno sport dilettantistico e le ASD o SSD continuano a poter dare agli atleti dei “rimborsi spese”, tassati con un regime agevolato, e non dei veri e propri stipendi come accade ad esempio ai calciatori.

Qui si inseriscono i gruppi militari, che hanno la possibilità di tesserare gli atleti e pagarli con regolare inquadramento, inserendoli nel proprio organico a tutti gli effetti. In questo modo, i gruppi sportivi militari sostengono la maggioranza degli atleti élite italiani e quindi dello sport nazionale: basta guardare una finale degli Assoluti e scorgere le cuffie militari per capire il peso che ha questa politica in Italia. Ma il gruppo sportivo, logicamente, ha le sue regole, che a volte vanno a scontrarsi con la libertà di scelta che spesso viene inesattamente sottintesa nella definizione di professionista.

È capitato alla recente seconda stagione di ISL che alcuni atleti italiani non avessero abbastanza ferie maturate con la propria Arma per poter stare più di un mese a Budapest, e che quindi abbiano dovuto declinare gli inviti. A pensarci bene non c’è nulla di strano: il senso più stretto dell’essere professionista sottintende che ci sia un datore di lavoro disposto ad elargire denaro in cambio di tempo, lavoro e in questo caso, prestazioni.

Tutto è migliorabile e le richieste degli atleti sono tutt’altro che irragionevoli, ma va perfezionato anche il modo in cui si descrive il contesto reale in cui ci muoviamo.

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Il dialogo col CIO

Tra i comunicati della International Swimming Alliance si legge: “Mentre tutte le moderne leghe sportive professionali hanno un rapporto medio tra atleti e amministratori di 1:3, la struttura amministrativa del CIO è rispettivamente di 1:50. Inoltre, tutte le moderne leghe professionistiche hanno accordi di compartecipazione alle entrate con atleti di circa 50-50, i nuotatori non ricevono alcun compenso per competere alle Olimpiadi o ai Campionati del mondo. I nuotatori si sono uniti per affrontare questi clamorosi confronti.”

Lo sport olimpico nasce come amatoriale, ma nel 2021 saremmo degli stolti a pensare che si possa vincere un’Olimpiade facendolo per hobby. Se per professionismo intendiamo “il tempo e l’impegno che una persona mette in una data attività” allora i nuotatori sono pro a tutti gli effetti. Però, paragonare l’NBA con il nuoto non è di base corretto, innanzitutto per l’indotto economico enormemente diverso generato dai due sport.

I nuotatori vorrebbero più guadagni dal CIO, ma i giocatori NBA spesso evitano platealmente di partecipare alle Olimpiadi per evitare spiacevoli infortuni che possano fargli saltare anche solo qualche partita di regular season. Per prestigioso e onorevole che sia, l’oro Olimpico non vale economicamente molto di più di qualche partita in prime time sulle reti nazionali di una delle leghe – NFL, NBA, MLB e NHL – americane.

Futuro & Dialogo

Detto questo, da qualche parte bisogna pur partire, e non mi sorprendo affatto di essere d’accordo con Ranomi Kromowidjojo, che in un’intervista sempre su SOS inquadra la situazione con estrema lucidità: “Dobbiamo parlare. Se continui a fare lo stesso per tanti anni con le stesse persone, non importa se sei il direttivo della FINA o una grande azienda o un nuotatore professionista: ottieni gli stessi risultati. Penso che la FINA debba iniziare a parlare con gli atleti.”

Ranomi non sembra correre troppo, anzi. È consapevole che cento anni di storia non si cambiano in un giorno, ma si pone piccoli obiettivi raggiungibili con un piccolo impegno da ambo le parti. Il dialogo, l’ascolto degli atleti dovrebbe essere la base di tutto ciò.

Se sono gli atleti stessi a chiedere, ad esempio, di gareggiare di più, perché non accontentarli? I Mondiali resteranno i Mondiali, così come le Olimpiadi, e non sarà un circuito come la ISL a scalfirne la sacralità.

Ma portare il nuoto nelle TV, nelle case degli appassionati, potrebbe essere un primo passo per far conoscere gli atleti e lo sport in generale.

In che modo potrebbe essere dannoso un progetto che ha tra i suoi obiettivi quello di farci conoscere i nuotatori?

“Siamo molto di più che una bandiera su una cuffia, siamo delle persone, e forse loro hanno paura di questo”, dice Katinka Hosszú. Con “loro” intende la FINA, lasciando intuire che ci sia una sorta di ostruzionismo, di censura, per evitare che gli atleti diventino più grandi del nuoto stesso. Cosa hanno fatto LeBron James e compagni quando si sono trovati davanti ad un problema come questo? Hanno ridiscusso il contratto collettivo. E come è finita? Spesso hanno ottenuto quello che volevano.

Mettere i nuotatori al centro del nuoto dovrebbe essere la priorità, per il bene comune e per lo sviluppo delle potenzialità di questo sport.

Se tutto andrà bene, ci guadagneranno tutti di più. Anche noi che lo guardiamo. Anche la FINA, che ha i bilanci in rosso.

See you later!

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