Ogni anno, dall’inizio alla fine della stagione, gli atleti si rendono protagonisti di un inarrestabile processo all’allenatore: si discute dei suoi metodi, dei suoi modi e perfino della sua personalità.

La prospettiva a bordo vasca, invece, è del tutto differente; l’allenatore è abituato a sentire i propri atleti lamentarsi, ascoltare le critiche agli allenamenti o alle serie messe in discussione in nome di una spesso immotivata stanchezza.

Ci affidiamo all’allenatore credendo che possa sapere ciò che è meglio per noi: ma noi, siamo davvero pronti ad ascoltare ciò che ha da dire?

Ci siamo mai chiesti, in altre parole, come saremmo da allenatori di noi stessi?

Instancabili indisciplinati

Innumerevoli volte, ancora prima di entrare in acqua, chiacchieriamo con i nostri compagni di squadra. L’allenatore ci esorta a tuffarci più velocemente e ciò che facciamo è protestare per quello che ci ha chiesto. Siamo lì per allenarci e ci lamentiamo se ci viene richiesto di farlo.

Quando ormai siamo stanchi del gossip di bordo vasca, finalmente ci tuffiamo in piscina, e dopo poco ci ritroviamo a criticare l’allenamento perché troppo faticoso o perché sproporzionato rispetto alla stanchezza. Ogni cellula del nostro corpo ci suggerisce di fermarci e noi siamo sempre ben pronti ad ascoltarla.

L’allenatore a quel punto ci motiva, ci incita a continuare ma noi non lo facciamo. Interrompiamo la serie, intralciamo i nostri compagni di squadra e di certo non mostriamo disponibilità a comprendere. Ci stanchiamo di qualsiasi cosa ci proponga il coach ma dell’essere instancabili indisciplinati non ci stufiamo mai.

Il più fidato dei compagni di squadra

Infrangere le regole è meraviglioso, ci fa sentire come a scuola quando riuscivamo a copiare il compito in classe eludendo la sorveglianza del professore. Ma in piscina è tutto differente; il coach, che troppo spesso consideriamo il maestro severo, in vasca deve essere il nostro miglior alleato.

L’allenatore deve rappresentare per noi il compagno di squadra perfetto, che sa consigliarci ciò che è giusto, che sa fermarci quando stiamo facendo troppo e che ci aiuta ad infrangere i nostri record e a superare le nostre barriere mentali.

Un atleta migliore

Non possiamo essere responsabili dei metodi di allenamento del nostro coach ma portando l’attenzione a noi stessi anche i nostri sforzi possono essere ottimizzati.

Partiamo ad esempio dalle risposte che comunichiamo al nostro allenatore: gli facciamo sempre capire che abbiamo compreso l’esercizio? Rispondiamo in modo reattivo a ciò che ci propone? Ma soprattutto siamo davvero sempre “in ascolto”?

Se potessimo sederci a bordo vasca analizzando criticamente uno dei nostri allenamenti, molto probabilmente ci renderemmo conto che spesso rispondiamo per dare riscontro verbale ad una richiesta e non perché abbiamo davvero “ascoltato” ciò che il coach aveva da dirci; ascoltare l’allenatore significa comprendere il consiglio, essere aperti a capire perché in quel momento ha voluto portare la nostra attenzione su quel dettaglio che può apparirci talvolta futile o scontato.

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Le parole, ma non solo

Anche il linguaggio non verbale può rappresentare un utile strumento per comunicare con il nostro allenatore; è vero, spesso gli allenamenti sono un campo minato, un tempo convulso senza stop dove le pause servono per aggiustare gli occhialini, sistemare le spalline del costume o più semplicemente per respirare, ma si può “parlare con il coach” anche solo con un’occhiata.

Incrociare ad esempio il nostro sguardo con quello dell’allenatore può fargli capire che siamo attenti mentre alzare gli occhi al cielo gli mostrerà che, a nostro parere, sta esagerando ed è tempo di rallentare.

Non dobbiamo credere che questi gesti siano scontati, è necessario invece che comprendiamo che anche per il coach è essenziale il nostro feedback.

K. Robertson/Getty | Business Insider

La nostra voce in capitolo

Come ci comporteremmo se dovessimo svolgere il ruolo di allenatore di noi stessi? Ancora una volta questa domanda ci torna in aiuto. Se è vero infatti che le critiche al coach sono tanto futili quanto controproducenti, la nostra voce può fare ancora una volta la differenza.

Il coach può sbagliare, e può farlo perché anche se probabilmente conosce ciò che è meglio per noi, non può invece sapere cosa ci passa per la testa. L’allenamento è lo specchio più sincero della nostra vita; esso riflette con inesorabile precisione ciò che sta accadendo dentro e intorno di noi.

Nuotando impariamo a conoscerci e sappiamo se abbiamo sbagliato alimentazione, se ci siamo eccessivamente affaticati o se stiamo sfogando qualche sofferenza tra le bracciate del nostro allenamento.

L’allenatore non conosce la nostra vita privata e per quanto possa istruirci su cosa sia la resilienza, spesso non riusciamo a farci forza e a superare in vasca una giornata difficile; proprio per questo è importante spiegargli in modo chiaro e sincero quali siano le nostre sensazioni del momento.

Un nuovo modo per conoscersi e conoscere il coach

Esistono probabilmente milioni tecniche di allenamento ed altrettante risposte con cui gli atleti possono reagire ad esse; ma per quanto ci sforziamo di analizzare razionalmente gli stimoli ed i feedback ci sono sempre variabili che non siamo in grado di controllare. Per questa ragione le nostre sessioni di training falliscono miserabilmente lasciando aperto il varco a critiche che, come di consueto, rivolgiamo al coach.

La verità è che il rapporto umano, la comunicazione, le personalità di allenatore ed allenato sono soltanto alcuni degli elementi che non possono prescindere dal rendere la vasca una sorta di palcoscenico dove metterci alla prova.

Affinché l’allenamento possa diventare un processo di profonda e reciproca conoscenza tra il nuotatore e l’allenatore soltanto il gioco di entrambe le parti può infatti fare la differenza, soltanto il gioco di squadra può trasformare il rapporto tra atleta e coach non solo produttivo ma anche unico e vincente.

Foto copertina: C. Rose/Getty | Deadspin