Cosa aspettarsi dai Mondiali in vasca corta.

Niente, mi vien da dire, e sta volta forse non è per trollare.

Sette giorni fa abbiamo parlato delle Nazionali più attese di questo Mondiale in vasca corta, e di conseguenza dei nomi che in quelle nazionali mantengono alta l’attenzione del mondo del nuoto su un evento che, francamente, non sembra poi così atteso, nemmeno da chi il nuoto dovrebbe seguirlo con costanza e passione (presenti esclusi, si intende).

Nonostante la storia dei “Mondialini” sia ricca di grandi imprese e gare memorabili, alla vigilia di questa edizione siamo più intenti a parlare di chi non ci sarà invece che di chi a Budapest onorerà la Duna Aréna con la propria presenza. La lista degli assenti fa effettivamente paura: Marchand, Ceccon, Martinenghi, Ledecky, McKeown, Titmus, O’Callaghan, Huske, Milák, Sjöström, Popovici, Pan Zhanle. Tutti campioni Olimpici, tutti in altre faccende affaccendati, tutti uniti nel pensare che la vasca da 25, in questo frangente, si possa tranquillamente accantonare senza alcun tipo di rimpianto.

Eppure aggiungere un oro Mondiale alla bacheca dovrebbe essere un vanto, per uno che di mestiere fa il nuotatore e che un giorno, quando tutto sarà finito, i Mondiali in vasca corta li guarderà dal divano un pò come tutti noi (ma a differenza nostra, forse con qualche rimpianto in più). A quanto pare non è così: il paradosso dei nostri giorni è che le gare sono diventate un problema.

Facciamo un passo indietro. Ci ricordiamo tutti di quando il nuoto sembrava lanciato verso una svolta storica, quella del professionismo? Ne scrivevo cinque anni fa, e abbiamo continuato a parlarne su questa rubrica e non solo, vedendo col tempo prima scemare e poi (forse definitivamente) scomparire ogni velleità di cambiamento radicale, in uno sport che da troppo tempo si attorciglia su sé stesso per non trovare mai la via. Se non quella che già aveva intrapreso.

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Il nuoto è uno sport di immensi sacrifici, e chi è arrivato in alto vuole giustamente godersi i privilegi di tale posizione. In questa ottica, la World Cup va benissimo, perché si guadagna bene e i risultati non sono necessariamente richiesti (poi se arrivano, tanto di guadagnato). Il Mondiale invece è pericoloso, perché si rischia che qualcuno con più fame, più allenamento, più focus e magari anche più attitudine in corta ti possa battere e, in qualche modo, sminuire l’impresa di vincere un’Olimpiade. Se a questo ci aggiungiamo i problemi di stress e salute mentale che accompagnano frequentemente la pratica agonistica, il risultato è proprio il semi-boicottaggio dei Mondiali di Budapest di cui sopra. Però, c’è un però.

Tenetevi forte perché nelle prossime righe sarò blasfemo.

Il nuoto non è l’unico sport in cui si fanno sacrifici.

Il calcio è nella posizione in cui è perché nel tempo è passato da sport della domenica pomeriggio ad azienda globale con partite praticamente ogni giorno e ad ogni ora. I calciatori (che, ricordiamocelo sempre, ogni nuotatore medio guarda dall’alto verso il basso perché non si allenano e non fanno uno sport “nobile”) passano la loro vita sportiva con la borsa in mano, tra ritiri, trasferte e allenamenti vari. Sono milionari perché i loro volti invadono il quotidiano, li vediamo sempre in tv e nei social, arrivano a giocare più di 60 partite l’anno finendo quasi sempre col compromettere (a volte anche in maniera irrimediabile) il proprio fisico.

Che ci piaccia o no, sport come il calcio (o il tennis, o il basket) dominano la scena soprattutto per questi motivi.

Il nuoto non è capace di far vedere i volti dei nuotatori più di due o tre volte l’anno, e anche quelle ad alcuni sembrano troppe.

Io i Mondiali di Budapest li guarderò con il solito entusiasmo, e sono sicuro che i temi di cui parlare non mancheranno.

Ma il retrogusto amaro delle potenzialità inespresse di questo sport mi rimarrà, forse, per sempre.

See you later!

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Foto: Fabio Cetti | Corsia4