Ma partiamo dal principio.
Chi è Simone Manuel
Simone Manuel è la prima donna afroamericana capace di vincere un oro Olimpico nel nuoto, e per di più nella gara regina, i 100 stile di Rio 2016. Oltre a questo, è anche riuscita – prima americana di sempre – a vincere 50 e 100 stile nello stesso Campionato Mondiale (2019), e ha nel suo palmarès qualcosa come 17 medaglie mondiali e 5 Olimpiche. Con 52.04 è la quarta donna di sempre nei 100 stile, dietro solo a Sjoestroem, McKeon e Campbell. Già questi dati ne fanno, a solo 26 anni, una leggenda vivente del nuoto.
La sua carriera ha subito una brusca frenata durante il lockdown, quando il suo corpo e la sua mente hanno iniziato a sentire il sovraccarico di una situazione che era per lei diventata ormai insostenibile. La pressione di dover essere sempre performante, le aspettative che c’erano intorno alla sua figura e quelle che lei aveva su sé stessa erano deleterie, ed i risultati hanno smesso di arrivare. Questo nonostante si stesse allenando “Meglio di sempre”, come le diceva il suo coach, anche se i tempi in gara non erano per niente soddisfacenti.
Finalmente, a pochi mesi dai Trials 2021, i medici le diagnosticano la sindrome da overtraining, un problema abbastanza comune tra gli atleti che continuano ad allenarsi duramente ma che non ottengono i risultati sperati. La sindrome si manifesta anche con insonnia, depressione e ansia, e rende un atleta semplicemente incapace di performare come vorrebbe. Non ci sono soluzioni se non il riposo, ed è quello che Manuel fa proprio a poche settimane dai Trials.
Overtraining e Mental issue
Dopo i Trials, conclusi con risultati non pienamente soddisfacenti, Manuel parla del suo problema pubblicamente in conferenza stampa, ma invece che trovare la comprensione dei media viene travolta da un certo scetticismo: “Tutti pensavano che io avessi la testa altrove, negli sponsor o in chissà che, e che non fossi più in grado di essere un’atleta agonista. Niente di più sbagliato.” Il trattamento che le viene riservato è purtroppo un classico: ritenere gli atleti dei privilegiati che vivono una vita di agi e non possono per questo lamentarsi di nulla è la via più facile per spiegare situazioni che, invece, hanno spesso tutt’altra natura.
La verità è che Simone Manuel è un essere umano come tutti, e come tutti può avere alti e bassi nella vita e nel lavoro, con la sola differenza che la cassa di risonanza mediatica attorno ad un suo passo falso fa molto più rumore che quella di un qualsiasi altro lavoratore. Il fatto che lei debba accettare un suo fallimento davanti a decine di giornalisti invece che dietro ad uno schermo di un computer in un ufficio non cambia la sostanza della cosa. E c’è una grande differenza tra la valutazione pura della prestazione – positiva o negativa che sia – magari accompagnata da un’analisi tecnica degli errori commessi in gara ed il giudizio morboso su ciò che si presume, spesso erroneamente, ci sia dietro a quella prestazione.
Cosa ci dice Simone Manuel
“Vincere non è tutto… ma è divertente!”, dice Manuel al termine dell’intervista con il sorriso sulle labbra, ma per poterlo dire è dovuta passare attraverso mille difficoltà. Una su tutte, un’edizione delle Olimpiadi dove ha raccolto una medaglia in staffetta, quando invece in molti si aspettavano da lei ben altri risultati. Sacrificare tutto per lo sport, evidentemente, non è più il suo principale desiderio: “Voglio solo nuotare senza aspettative né pressioni, soprattutto da me stessa.”
Non tutti gli atleti sono uguali, non tutti hanno lo stesso approccio allo sport proprio come non tutti gli esseri umani hanno lo stesso approccio alla vita. Quello che per molti è rappresentativo di successo a volte rende semplicemente infelici, e basta leggere la biografia di molti super atleti per scoprirlo facilmente (ricordate Agassi o Phelps?).
Forse è arrivato il momento di pensare che gli atleti, che noi spesso tendiamo a prendere come esempio principale di successo nella società e nella vita, non rappresentano l’unica via possibile la cui alternativa è il fallimento. Non tutti sono disposti a sacrificare la propria esistenza per i risultati sportivi e, soprattutto, non è necessariamente questo il modo giusto di vivere le cose.
Non avrei nulla da ridire, ad esempio, se Tom Brady, o Gigi Buffon, o Nicholas Santos mi raccontassero che fare gli sportivi professionisti fino a 40 anni e oltre è stato per loro una gioia, il coronamento di tutte le loro aspirazioni, il loro sogno.
Pensare che invece Simone Manuel si è sentita costretta a farlo dall’ambiente esterno – così come Caeleb Dressel, per esempio – mi rattrista un po’ di più. E mi fa riflettere.
Foto: Fabio Cetti | Corsia4