Il mio cappello è arancione, lo stesso colore della spugna che ricopre il microfono che uso per le interviste.

Me lo hanno regalato i miei figli, un giorno che sono andati con la mamma a fare shopping, perché gli sembrava brutto non prendere niente anche per per me, hanno detto.

Nonostante me lo abbiano comprato qualche settimana fa, quando il sole batteva sull’asfalto facendo alzare le temperature a livelli semi estivi, si è rivelato utilissimo: è morbido e confortevole, mi copre le orecchie e soprattutto ripara la mia fronte dal vento che in questi giorni c’è a Riccione, evitandomi i fastidiosi attacchi di sinusite che ciclicamente mi colpiscono in questi periodi.

Quando entro in piscina, lo tolgo e prendo in mano il microfono, dando così l’impressione di trasformare me stesso in un mini-me di plastica con due pile all’interno, che per un paio d’ore registra le parole di nuotatori bagnati, col fiatone ed i muscoli gonfi dallo sforzo.

C’è qualcosa di vagamente sadico in questa pratica, che prevede di raccogliere le impressioni di un atleta proprio appena dopo il termine del suo impegno fisico, con l’adrenalina ancora in circolo e l’acido lattico che inizia a farsi sentire, mordendo ferocemente i muscoli.

Spesso mi capita di provare sete per loro, che hanno la bocca impastata di saliva e faticano a far uscire le parole, come se ci fosse una colla che le trattiene tra mascella e mandibola. Spesso mi capita di provare fatica per loro, che hanno le vene del collo pulsanti e che cercano in tutti i modi di mantenere un ritmo respiratorio non troppo ansimante. Spesso mi capita di voler essere loro, che nella vita hanno la possibilità di riscontrare in maniera empirica il risultato del proprio lavoro.

Diamine, quella spugna arancione è così fortunata: capta i momenti in cui emergono le vere emozioni, non filtrate, derivanti dal puro verdetto del cronometro, non calmierate dai ragionamenti dell’allenatore o dalle successive valutazioni cervellotiche. Poche le frasi fatte, quelle che si sentono puntualmente dire ai calciatori ingessati in sala stampa, molte frasi buttate di botto, a caldo, accompagnate da espressioni del viso e degli occhi che si fa fatica a non riconoscere come vere.

Quella spugnetta arancione raccoglie fisicamente una sostanza, misto di acqua clorata e saliva, che deve avere al suo interno la molecola originale della fatica. Analizzandola, probabilmente troveremmo la risposta scientifica alla domanda “quanto sei stanco?”, e la riusciremmo ad analizzare ponendo rimedio definitivo alla spossatezza.

Sono sicuro che, dal suo punto di vista, la spugna arancione è felice, perché sta facendo quello per cui è nata, il vero scopo della sua essenza. Si sentirà appagata nell’adempiere al suo ruolo con fierezza, spiccando tra vari altri microfono grigi e neri, portando avanti il suo ideale di raccontatrice di emozioni in prima fila, un compito che aveva ben prima che io la conoscessi.

Cosa spero veramente? Che quella spugna si senta un pò come mi sento io.

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C’è qualcosa di magicamente attraente nelle parole che accompagnano le imprese degli sportivi.

Pensandoci, lo sport agonistico è un’attività che, presa in assoluto, non ha molto senso. Appurato che il fine ultimo è vedere chi va più veloce, il vero scopo di scannarsi nell’acqua fino all’autolesionismo è razionalmente insensato.

Per quale motivo dovremmo trasformare un’attività tra le più rilassanti del mondo in una tra le più faticose ed alienanti?

A volte è proprio la spugna arancione che me lo rivela, captandolo dalle parole degli atleti che, va detto, cercano sempre di essere convincenti nelle loro motivazioni. Non sempre ci riescono, non sempre mi convincono, ma spesso leggendo tra le righe della loro analisi si trova la verità originale.

Si capisce che visualizzavano quel momento da mesi, da anni, che hanno provato e riprovato la gara nella loro testa, che hanno cercato di trasformare il pensiero in azione e di piegare la realtà alla loro volontà. Lo hanno fatto giorno dopo giorno, costantemente, come una goccia cinese che corrode il cemento armato. C’è chi ci riesce e chi no, ma la partenza è uguale per tutti, e dalle loro parole capisci quanto sia più importante il percorso rispetto alla destinazione.

Non esiste un aereo che ti porta dal punto A al punto B, saltando a piedi pari montagne e mari. Esiste solo una lunga strada sterrata, fatta di salite e discese, di deserti e stagni, di rettilinei infiniti e curve a gomito, che bisogna percorrere con determinazione e volontà.

​La strada che ha fatto anche quella spugna, sopra quel microfono, in mezzo a quei corpi pulsanti fatica e cloro, tra quelle parole a volte di gioia ed altre di sconforto.

Tra i vari pensieri espressi più o meno loquacemente, la spugna ha imparato a conoscere lo sport ed il nuoto in particolare, ha intuito che non sempre va come si vorrebbe e che quasi mai tutto fila liscio. Che se avevi in mente un obiettivo non puoi far altro che dare tutto te stesso per raggiungerlo, perché altrimenti sarà stato solo tempo buttato. Che se vuoi una cosa, tela vai a prendere, cazzo.

Questo perlomeno è quello che ho capito ascoltando e riascoltando le parole che passano dalla bocca degli atleti alla spugna del microfono, dalla spugna ai circuiti, dai circuiti al computer, dagli altoparlanti del computer alle mie orecchie, contenute in quel morbido cappello che ha lo stesso colore della spugna del microfono.

Foto: Luca Soligo | Corsia4