A poche bracciate dal termine della gara dei 100 farfalla all’Olimpiade di Pechino nel 2008 Milorad Čavić sembrava chiaramente in vantaggio sul rivale Michael Phelps.
Era quasi certo che il nuotatore serbo avrebbe impedito allo statunitense di realizzare l’impresa di conquistare otto medaglie d’oro in una sola edizione dei Giochi.
O invece no?
Phelps si trasformò in una sorta di Harry Potter del nuoto e dette un colpo di bacchetta magica che gli fece toccare per primo la piastra.
O invece no?
Fino ad allora Phelps aveva dominato l’Olimpiade, distruggendo gli avversari in tutte le gare. La sola eccezione si era verificata in staffetta. Nella 4×100 stile libero fu un’epica frazione di Jason Lezak a permettere agli Stati Uniti di superare la Francia e vincere la medaglia d’oro.
Negli altri eventi Phelps mise tra sé e gli altri delle distanze che ci si potrebbero immaginare in una gara giovanile, quando un atleta è nettamente superiore. Phelps vinse i 200 stile libero con quasi due secondi di vantaggio, i 200 e i 400 misti con più di un secondo, i 200 farfalla con solo 67 centesimi di vantaggio ma solo perché gli occhialini gli si erano riempiti di acqua.
Certamente anche per un nuotatore quasi sovrumano le energie possono venire a mancare dopo quindici gare, comprese le batterie e le semifinali, e dopo un continuo di interviste, procedure antidoping e così via. Lo stesso Phelps, dopo la vittoria nei 200 misti ammise di non averne più.
Però gli restava una gara da disputare, quella decisiva per superare il record di Mark Spitz realizzato a Monaco ’72. Phelps avrebbe dovuto raschiare il fondo del barile per raccogliere le ultime gocce di energia.
Già prima dell’inizio dell’Olimpiade si diceva che quella dei 100 farfalla fosse la gara più a rischio per il campione americano, per tre motivi.
Primo. Sarebbe stata l’ultima a essere disputata e quindi il rischio di un calo fisico e mentale era possibile.
Secondo. Phelps si trovava più a suo agio nelle gare dai duecento metri in su.
Terzo. C’erano due avversari che avrebbero potuto impensierire Phelps: l’americano Crocker, che comunque non era la forza della natura che era stato al Mondiale del 2005 a Montreal quando aveva vinto la sfida e realizzato il record del mondo, e appunto Milorad Čavić.
Quest’ultimo aveva dalla sua una partenza fulminante che avrebbe potuto costringere Phelps a rincorrerlo, la gioventù, la sfrontatezza e il costante miglioramento dei tempi ottenuti. Čavić aveva dissotterrato l’ascia da guerra due mesi prima dell’Olimpiade, dichiarando:
Tutti vogliono vedere Phelps che vince otto medaglie d’oro. Io non intendo permetterglielo. Spero di riuscire a uccidere il drago. Tutti credono che lui sia imbattibile. Non lo è. Penso di avere delle possibilità di batterlo.
Foto Gettys Images
La finale dei 100 farfalla si svolse il 16 agosto. Ancora un 16 agosto per la storia del nuoto, come quattro anni prima ad Atene con la sfida tra Phelps, van den Hoogenband e Thorpe (leggi il nostro speciale Parte I e Parte II). L’attesa per la finale era fremente. Come ad Atene 2004, il pubblico era particolarmente vociante: il tifo era assordante. Era il giorno della settima medaglia possibile. Il giorno in cui si sarebbero legati Monaco 1972 e Pechino 2008, Spitz e Phelps.
Oppure no.
All’ingresso in vasca nessuno dei due mostrò grandi emozioni. Čavić era in corsia 4 e rimase impassibile di fronte alla telecamera. Phelps ascoltava la musica nelle cuffie come al solito. Prima di salire sui blocchi i due si guardarono brevemente e non si dissero niente. Čavić non aveva paura di Phelps e lo fece vedere.
Come previsto, la partenza di Čavić fu fulminea e il serbo passò ai cinquanta metri in testa, con un tempo di 23”42, inferiore al passaggio del record del mondo. Nella corsia adiacente Phelps era indietro: settimo, col tempo di 24”04, distante almeno mezzo corpo di lunghezza da Čavić.
Grazie a una delle sue armi spaziali, una virata potente, Phelps ricucì il gap all’inizio del secondo cinquanta, ma solo parzialmente. Michael superò tutti gli altri avversari tra i 50 e i 75 metri, ma a quel punto i dubbi che avrebbe raggiunto e battuto Milorad erano notevoli.
Più ci si avvicinava la fine della gara, più sembravano alte le probabilità di sconfitta per Phelps: sembrava che la storia non si sarebbe fatta quel giorno.
Ancora a pochissimi metri dall’arrivo Čavić aveva un certo margine di vantaggio e si lasciò scivolare fino alla piastra mentre Phelps tirò fuori la bacchetta magica, raccolse le ultime potentissime gocce di energia dal fondo del barile, dette una mezza bracciata potente e veloce e…
Il pubblico, col fiato sospeso, guardò gli schermi. Gli atleti stessi si voltarono a guardarli. Quei monitor diventarono come pietre su cui è segnata la data di un grande evento.
C’era scritto 50”58 accanto al nome di Phelps e 50”59 accanto al nome di Čavić.
La settima medaglia era stata conquistata.
Aveva vinto ancora una volta Phelps. O invece… forse?
Ho pensato che quell’ultima mezza bracciata mi sarebbe costata la gara. Invece è stato il contrario. Se fossi scivolato, ci avrei messo troppo a chiuderla. Un colpo più corto e veloce avrebbe impresso anche più forza sulla piastra. Alla fine ho preso la decisione più giusta.
La reazione stessa di Phelps dopo i cento farfalla era stata inusuale: aveva perfino lanciato un pugno in aria.
Čavić invece sembrava scioccato. Si era visto davanti. Era sicuro di aver toccato per primo. Anche molti spettatori erano convinti della vittoria di Čavić. Anche la federazione serba lo era e aveva fatto ricorso ipotizzando un errore da parte del sistema cronometrico.
La TV non dava certezze. I giudici, dopo aver visto le immagini rallentate a un frame ogni millesimo di secondo, confermarono la vittoria di Phelps. Il fotografo di Sports Illustrated Heinz Kluetmeier (vedi foto “The International Swimming Hall of Fame Newsletter del 2010) riprese l’arrivo dall’alto e le immagini sembravano confermare il verdetto.
Malgrado ciò Čavić non fu convinto e in conferenza stampa arrivò a dire che la verità sarebbe emersa e la gente lo avrebbe fermato per strada dicendogli: “Tu hai vinto”.
Non sarebbe successo. I dubbi sarebbero rimasti, ma con loro sarebbe rimasto il fatto che la vittoria della gara fu ufficialmente di Phelps, che il giorno seguente, grazie all’oro statunitense nella staffetta mista, avrebbe conquistato il record delle otto medaglie d’oro vinte in una sola edizione dei Giochi Olimpici.
Spitz disse:
Phelps non è solo il più grande nuotatore di tutti i tempi, ma anche il più grande atleta olimpico di tutti i tempi, ma anche il più grande atleta di tutti i tempi.
La storia però non sarebbe finita qui. Phelps voleva dimostrare forse a se stesso e al mondo che non ci dovevano essere dubbi sulle sue medaglie. Non ci dovevano essere dubbi su chi era il più forte in tutte le specialità in cui lui partecipava.
L’occasione di dimostrarlo ancora non era lontana: il Mondiale di Roma 2009. Il nuovo duello tra Phelps e Čavić si sarebbe rivelato come una nuova grande sfida, una gara esaltante e soprattutto come una ri-vincita.
(Foto copertina: Getty Images for NBC Olympics)
Gara e finale famosi come il 4-3 di Italia-Germania all’Azteca, forse perchè, come in quel 1970 calcistico (Rivera nella posizione giusta per il gol decisivo dopo avere avuto responsabilità nel 3-3 tedesco) sono stati gli “dei sportivi” a deciderne le sorti (chiamiamoli Eupalla, in prestito da Brera, per il calcio e Tritone per il nuoto)
Cavic era ancora davanti ma in calo, Phelps in rimonta ma “corto di spazio”.
Cavic, arrivato lungo, decise di scivolare e la sua bracciata ormai vuota si spense ulteriormente sott’acqua; Phelps decise di fare una mezza bracciata e alla fine venne premiato: più che per la sua decisione in sè, per lo svuotarsi di energia del serbo, così più carico di lui di energie alla partenza (Phelps, alla quinta gara individuale, settima complessiva, era ormai al lumicino, Cavic, prima di quei 100 delfino, si era testato in un’unica batteria dei 100sl).
Si potrebbero scrivere/ricordare tante cose, ne rammento solo un paio: il commento, a mio parere infelice, dei nostri telecronisti, con Sacchi che assicurava che aveva vinto Cavic, non considerando che erano stati quegli ultimi centimetri sott’acqua, non percepibili dallo spettatore, a fare la differenza; la reazione agli ultimi metri di gara del “clan Phelps”, con Bowman voltatosi ormai rassegnato e la sola madre di Michelone a tenere lo sguardo fisso sul tentativo di rimonta, che pareva ormai destinato all’insuccesso, del figlio.
Personalmente gustai, quasi assaporai, nel totale silenzio di quella notte di metà agosto 2008 (in cui, come nei sei giorni precedenti, mi ero alzato a vedere quello sport meraviglioso che è il nuoto) il volere di Tritone.