Visto l’innalzamento continuo del livello e della densità di prestazioni a cui assistiamo oggi emerge sempre di più un prerequisito fondamentale per l’allenamento dei nuotatori: basarsi esclusivamente su evidenze scientifiche.

Un caso pratico di cui ho deciso di parlare oggi è relativo all’allenamento ad alta intensità nel nuoto secondo quanto illustrato meglio in un articolo apparso alcune settimane fa sul sito SwimmingScience.net ad opera di due sport scientist italiani di grande fama quali sono Gian Mario Migliaccio e Jonny Padulo.

Le considerazioni da cui partono sono semplicissime: nel passato si sono visti diversi allenatori di successo svolgere programmi di lavoro basati esclusivamente sulla propria esperienza personale (che cresce in funzione del tempo e del numero di atleti), e il risultato è stato spesso di non riuscire a replicare lo stesso schema vincente (con il primo atleta) sul secondo o terzo nuotatore, con un risultato finale del tutto differente.

È chiaro che finche si parla di nuoto giovanile risulta estremamente facile ottenere progressi, avendo a che fare con ragazzi nel pieno dello sviluppo, dunque supportati dall’auxologia. Ma nel momento in cui si fa a che fare con atleti molto evoluti, essi presentano un grosso problema legato a un grado di allenabilità ormai ridotta, pertanto risulta molto più difficile anche solo identificare l’area in cui sia possibile ottenere degli ulteriori miglioramenti. Per provare anche solo a fare ciò è indispensabile avere basi scientifiche molto solide.

Mi piace ricordare una frase dell’allenatore inglese Jon Rudd: “Se vuoi che accadano certe situazioni devi lavorare per fare in modo che accadano”.

In altre parole, l’unico modo per essere sicuri del proprio lavoro è avere uno strumento che provi che io sto facendo le cose giuste; e le evidenze scientifiche sono lo strumento d’aiuto in questo caso in modo da avere il controllo e la conferma di tutto quello che viene fatto in una seduta di allenamento, in acqua o a secco che sia.

Senza queste non avrebbe alcun senso parlare di HIT – High Intensity Training –  proprio perché intuitivamente è facile per chiunque da concepire e da proporre (serie di sprint?) e, ancora peggio, è ancora più facile da confondere con altri allenamenti che nulla hanno a che vedere con evidenze scientifiche.

Sempre in riferimento all’articolo di SwimmingScience, prima di vedere l’applicazione di questa metodologia nel nuoto è bene fare un rapido excursus storico. In realtà i primi studi che supportano di questa tipologia di lavoro furono effettuati (come in altre occasioni) su altre discipline sportive. Occorre andare indietro nel tempo fino al 1996 con lo scienziato giapponese Izumi Tabata, il primo a mettere in evidenza un vero e proprio protocollo di lavoro che oggi porta il suo nome anche fuori dalla comunità scientifica, tant’è che è diventato quasi una moda in tutti i corsi di Crossfit e Functional Training nelle palestre sparse lungo lo stivale.

Bene, nulla fu concepito a caso, ma è derivato da una ricerca effettuata su un gruppo di skaters su ghiaccio olimpici, i quali furono sottoposti per un ciclo di 6 settimane al seguente allenamento: 20 secondi di lavoro a un’intensità elevatissima (si parla del 170% del VO2max!) e 10 secondi di recupero passivo, il tutto ripetuto per ben 8 volte.

I dati raccolti hanno parlato subito chiaro: tutti gli atleti hanno beneficiato di un aumento medio del loro VO2max pari al 14% e addirittura del 28% relativamente alla loro capacità anaerobica. Quella appena descritta è l’unica serie di allenamento che intendo citare in questo articolo perché l’obiettivo è l’opposto: conoscere le evidenze scientifiche e gli adattamenti che possono portare (in questo caso relativamente all’HIT) e una volta apprese queste bisogna essere in grado di saper formulare l’allenamento migliore, che sia per se stessi o per l’atleta da allenare. Nulla deve essere predefinito e precongelato, perché se così fosse non avrebbe alcun senso parlare del concetto di carico interno nella teoria generale dell’allenamento.

L’HIT, come dice l’acronimo stesso, è una metodologia di allenamento caratterizzata da serie che vedono l’alternarsi esercizi svolti ad intensità mediamente elevate alternate a fasi di recupero. La lunghezza delle ripetizioni e delle serie così come la durata e le modalità di recupero vengono modulate diversamente in base all’adattamento che si vuole raggiungere.

Ecco quindi che le evidenze scientifiche indicano la giusta via per manipolare queste variabili in modo ottimale per raggiungere gli obiettivi di cui sopra; e soprattutto dimostrano come questa metodologia di allenamento fornisce adattamenti sia a livello cardio-respiratorio che muscolo-scheletrico in maniera più efficiente, proprio perché con l’intensità più elevata si colpiscono meglio certi bersagli. Ma cosa s’intende per intensità elevata?

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Nell’articolo citato in precedenza viene posto l’accento su uno stato preciso che l’atleta deve raggiungere indicato come “Zona Rossa” ovvero un’intensità pari almeno al 90% del VO2max e sul formulare un set di allenamento dove la somma totale del tempo trascorso in questa zona è almeno di 1 minuto.

A questo punto occorre sottolineare una prima grossa differenza rispetto ad altre modalità di allenamento già viste: l’obiettivo dell’HIT è trascorrere una certa quantità di tempo lavorando a una certa intensità (se non è mantenibile meglio fermarsi) e non è nuotare su andature prefissate e calcolate (su basi discutibili!) corrispondenti a delle intensità.

Inoltre questa zona che abbiamo identificato è solo relativa a parametri oggettivi legati allo sforzo nella sua globalità – il carico interno – non è una zona metabolica corrispondente a un sistema energetico perché, non ci stancheremo mai di ripeterlo, le vie metaboliche deputate a fornire energia sono quelle note (3 nella fattispecie) e concorrono sempre insieme nello svolgere il loro compito, indipendentemente da quale sia il tipo di sforzo, inteso come intensità e durata.

In tal senso i tipi di adattamento che si raggiungono sono slegati da un singolo metabolismo, e partono da una considerazione piuttosto semplice, ovvero il considerare come indice di analisi un singolo parametro qual è il VO2max, per poi andare nel dettaglio in merito alle qualità che vengono migliorate. Di seguito le più importanti:

  • Volume plasmatico
  • Flusso ematico
  • Enzimi glicolitici
  • Enzimi ossidativi
  • Trasportatori di membrana, in particolare la pompa Sodio-Potassio
  • Buffering muscolare degli ioni H+
  • Resintesi della PCr
  • Ossidazione del lattato

Sono tutti adattamenti di carattere generale, e solo dopo essere stati sviluppati in un ciclo di lavoro dalle 6 alle 10 settimane saranno disponibili per la finalizzazione all’utilizzo, cioè per essere inseriti nel miglioramento prestativo vero e proprio.

Questo aspetto va ben sottolineato perché è bene mettere in chiaro che l’HIT non va confuso con l’allenamento dei ritmi gara nel caso del nuoto, che rimangono degli allenamenti fondamentali ma specifici e non generali.

Passando ad un punto di vista un po’ più pratico, sono state identificate ben 9 variabili su cui agire:

  1. Modalità di lavoro
  2. Intensità della parte attiva (nuotata)
  3. Durata della parte attiva (nuotata)
  4. Intensità del recupero attivo (tra le ripetizioni)
  5. Durata del recupero attivo (tra le ripetizioni)
  6. Numero di ripetizioni
  7. Numero di set
  8. Intensità del recupero attivo tra i set
  9. Durata del recupero attivo tra i set

La modulazione di queste variabili appena elencate deve permettere il raggiungimento il prima possibile dell’intensità corretta precedentemente riportata e di mantenerla per il tempo totale prefissato, se ciò non avviene l’atleta non si sta allenando correttamente ed è meglio passare ad altro.

Un’evidenza scientifica di questi protocolli di lavoro è proprio il raggiungimento di un valore elevato di VO2max quanto prima possibile, molto differente dai metodi più tradizionali basati sulle prime ricerche scientifiche caratterizzanti la cinetica del consumo di ossigeno con il suo massimo collocato dai 3 ai 4 minuti dall’inizio dello sforzo.

Con intensità di lavoro molto più elevate rispetto ai programmi tradizionali è possibile raggiungere valori di VO2max già elevati dopo un tempo che va dai 20 ai 35 secondi, questo per la prima ripetizione all’interno di un set. A questo punto in base al recupero scelto, sia come modalità (attivo o passivo) che come durata, l’atleta partirà nella ripetizione successiva già con una percentuale di consumo di ossigeno più alta e il raggiungimento del massimo sarà anticipata rispetto a prima e così via per tutto il set di allenamento.

Ecco che è molto importante sottolineare il rapporto lavoro/recupero, perché in base a come viene modulato permette di incrementare meglio alcune qualità piuttosto che altre tra quelle elencate in precedenza. Il frequente utilizzo del recupero attivo permette diversi benefici rispetto a quello passivo, generalmente adottato nel nuoto.

Gli adattamenti descritti sono relativi ad effetti più immediati dell’allenamento. Ma sempre nell’articolo citato viene sottolineato anche come “la più avanzata applicazione dell’HIT al nuoto permette anche l’integrazione con l’allenamento neuromuscolare”, una delle tematiche più al centro dell’attenzione che nei prossimi anni caratterizzerà il futuro dell’allenamento.

In conclusione si può dire che l’HIT è un processo di allenamento complesso da applicare, ma che permette all’atleta di concentrarsi meglio su piccoli obiettivi dal momento che una singola seduta di allenamento in questa modalità va svolta in modo molto preciso. Inoltre permette di lavorare con un alto contributo di tutti e tre i processi metabolici e con uno sforzo neuromuscolare adeguato.

La chiave è nella modulazione delle variabili di allenamento in modo da permettere all’atleta il mantenimento della “zona rossa” e ciò non è altro che una vera e propria individualizzazione dell’allenamento in funzione alle caratteristiche del singolo, e non una massificazione del lavoro.

L’ultima riflessione che voglio fare vuole andare oltre all’HIT: qualunque sia la metodologia adottata, gli adattamenti possibili con un allenamento sono molto più fini rispetto ai semplici metabolismi, e si possono raggiungere in diversi modi perché diversi sono gli atleti. Imprescindibile è “un utilizzo cosciente e giudizioso delle migliori evidenze per prendere delle decisioni. Significa integrare l’esperienza individuale con le migliori evidenze esterne derivanti da una ricerca sistematica”. Ciò non fornisce garanzie assolute di certezza, ma di sicuro aumenta di gran lunga la probabilità di riuscire e a volte anche di eccellere.

(Foto copertina: Fabio Cetti | Corsia4)