Ok, l’altra volta ci sono andato pesante, lo ammetto. Però lo avevo scritto nell’intro: tutti i commenti sono ben accetti, persino quelli poco educati, che quando si parla di passione, di amore, la ragione va a farsi benedire e si mette in campo il cuore. O in vasca, nel nostro caso.

Non si scherza coi sentimenti, quindi oggi non lo farò. Ci ho provato, più di una volta, e sono sempre rimasto scottato; se c’è una cosa che ho capito è che è inutile cercare di girare troppo intorno alle cose. Andare dritti al punto è più veloce, semplice e crea meno dissapori, quindi: il nuoto è bellissimo.

Devo ammettere che l’ho capito quasi subito, nonostante il mio primo approccio al nuoto sia stato simile a quello di molti altri, non idilliaco diciamo. Ma andando avanti con il tempo, e con gli anni, la mia opinione è cambiata ed è passata attraverso varie fasi, tutte riconducibili al titolo di questo racconto.

La prima volta che ho pensato che il nuoto fosse bellissimo è stata più di trent’anni fa, quando ho partecipato a quella che da noi si chiamava “La Gara Sociale”. Era una garetta non competitiva di fine anno, un’esibizione, alla quale partecipavano tutti i bambini della scuola nuoto, ma che prevedeva un premio e una classifica finale con tanto di podio: penso di aver sentito la stessa ansia che si prova nella camera di chiamata di una finale Olimpica. Mi ricordo un gran casino, genitori e bambini tutti ammassati all’interno della piccola vasca del mio paese, ognuno nell’attesa di quei pochi secondi, giusto il tempo di fare una vasca e via. Il mal di testa l’ho conosciuto proprio lì, è stato bellissimo. Non ricordo bene la composizione della classifica finale, ma se non sbaglio era determinata dalla somma dei punteggi di due gare, due stili insomma. Non ho vinto, sono arrivato secondo, ho anche la foto di me sul podio sorridente, bellissima, sfuocata. Il giorno dopo il capo allenatore mi ha fermato poco prima dell’inizio del mio corso dicendomi “la classifica era sbagliata, avevi vinto tu: eccoti la tua medaglia d’oro”. Mai una gioia, bellissimo.

Poi ho iniziato a fare le gare, le prime non agonistiche, e ricordo bellissime trasferte che duravano domeniche intere, in posti che mi sembravano enormi e freddissimi, seduto in mezzo ad una fila di altri mille bambini ad aspettare quei trenta secondi lì, il tempo che ci metti a fare un 25 rana insomma. I miei genitori erano bellissimi, in piedi schiacciati tra centinaia di altri; chissà se sono mai riusciti a vedere una mia gara, ma tanto “con la cuffia siete tutti uguali, tutti bellissimi”. Bellissimo era anche il rientro a casa, col buio, e a letto che domani è lunedì e si va a scuola.

Poi sono passato all’agonistica, e gli allenamenti sono diventati quattro o cinque a settimana. Bellissimo è stato uscire da scuola, mangiare un piatto di pasta di traverso e fiondarsi in piscina, che l’allenamento iniziava alle 14 e se tardavi 5 minuti erano piegamenti sulle gambe. Mi ricordo distintamente le urla del mio allenatore, quando si destava dalla lettura del giornale (la sua principale attività) e lanciava una tavoletta con una precisione che mi sono sempre chiesto perchè non facesse il tiro a segno olimpionico. Urlava soprattutto mentre facevo rana, il mio stile, ad ogni singola bracciata, per spronarmi o per esercitarsi sul do di petto, non lo so. Bellissimo è stato il momento in cui mi ha detto “da oggi sei dorsista”, almeno non dovevo più sentire le sue urla ad ogni bracciata, ma soltanto un lieve sottofondo ovattato.

Ho letto “Con la testa sott’acqua” di Cristina Chiuso

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Bellissimo è stato quando, ai miei primi Campionati Regionali esordienti B, sono finito in ospedale perché avevo dei dolori addominali che si pensava fossero appendicite. Era solo ansia, una bellissima ansia, che una volta passata mi ha permesso di gareggiare il pomeriggio stesso: quarto posto, medaglia di legno, bellissimo epic fail. Chissà che bellissima esperienza è stata per mia mamma, che è passata dal vedermi piangere per i dolori al vedermi disperato dopo la gara, non tanto per il podio mancato, ma perché il mio allenatore mi ha detto “tu hai paura di vincere”. Bellissima frase motivazionale, segnatevela.

Bellissimo è stato quando, ai miei primi Campionati Italiani, nella mia prima gara al Foro Italico, la staffetta nella quale facevo la frazione a dorso è stata squalificata per cambio irregolare di non mi ricordo chi, e sinceramente non ha nemmeno tanta importanza. Ciò che importa è stato vedere il mio nome sul tabellone, la in fondo, dove erano apparsi i nomi di Popov e van Almsick a Roma ’94, solo che di fianco al mio c’era la parola SQUAL. Quasi bello come l’anno dopo, quando un mese prima dei Criteria mi sono strappato i legamenti della caviglia sinistra grazie a un mio compagno di classe e alla sua entrata in tackle nell’ora di ginnastica. A Imperia ci sono andato e mi ricordo che per salire sul blocco dovevo aiutarmi con la mano per non perdere l’equilibrio. Bellissimo.

La cosa più bella, però, ve l’ho lasciata alla fine, perché so bene che qui ci arriva solo chi ha veramente voglia di leggere. Scrivendoli ora, rivivendoli, quei ricordi sono davvero bellissimi. Perché è grazie ai quarti posti, ai mal di pancia e alle caviglie spezzate che ho trovato la mia strada nel mondo. Di certo non è stato sempre bellissimo, mai facile, ma è in quei momenti che ho capito quanto fosse più importante il viaggio della meta. Ho avuto le mie piccole soddisfazioni e me le tengo strette, tanto quanto le delusioni: provate a chiedere a Michael Phelps o a Federica Pellegrini, la risposta non sarà tanto diversa dalla mia, ci scommetto.

Ma queste sono solo le mie esperienze, non importa se siano o meno simili alle vostre. Quel che importa è che tutti, se ci pensiamo, abbiamo i nostri motivi per amare il nuoto, alcuni dei quali sono gli stessi per cui lo odiamo. Perché amore e odio sono due facce della stessa medaglia.

E il nuoto, alla fine, è davvero bellissimo.

Foto: Fabio Cetti | Corsia4