Ogni volta che si tenta di parlare di allenamento del nuoto è quasi inevitabile ricadere nella classificazione di quest’ultimo come sport di prestazione, in qualunque periodo storico e in qualunque contesto e livello agonistico.

La parola prestazione sembra quasi un polo magnetico da cui siamo irrimediabilmente attratti a ogni nostro tentativo di analizzare una gara, di stendere un programma di lavoro, o anche solo i riflettere su qualsiasi tematica tecnica di questo sport.

Questo perché il risultato di una gara di nuoto è da sempre basato sul fattore tempo, ai giorni nostri come all’epoca di Johnny Weissmuller, in una manifestazione Esordienti come ai Giochi Olimpici: è sempre chi fa fermare per primo il cronometro ad avere ragione!

Detto ciò non ci sarebbe allora da scrivere un altro articolo sulla metodologia dell’allenamento del nuoto, dal momento che sembrano non esserci più segreti ormai sulla caratterizzazione e lo sviluppo dell’allenamento di uno sport di prestazione.

Tutto è stato detto e scritto in tutte le lingue sulla teoria dei metabolismi, degli adattamenti e sulle periodizzazioni più svariate, addirittura si è arrivati al livello dei postulati!

Avrebbe senso fermarsi qui se non fosse che la prestazione rimane si la determinante del risultato, ma è pur sempre solo la punta dell’iceberg visibile a tutti, la vera struttura è quella sottostante, non visibile, ma che condiziona fortemente tutto il resto.
Avrebbe senso fermarsi qui se ad una apparente stabilizzazione metodologica corrispondesse uno stagnamento dei tempi in gara.

Ma i fatti dicono che la realtà osservata negli ultimi decenni è ben diversa. In sintesi per arrivare a mettere la lente d’ingrandimento sul vero tema che intendo trattare è bene porsi una domanda semplice e naturale: come è stato possibile arrivare a raggiungere le prestazioni che si vedono oggi, in termini assoluti (record mondiali), ma anche in termini relativi (anche solo in contesti nazionali) come miglioramento del livello medio?
Se il potenziale e le doti individuali di un atleta di vent’anni fa e di un atleta di oggi sono paragonabili, come mai non lo sono più i loro record personali nelle medesime distanze di gara e negli stessi stili?

Come ho accennato in precedenza, la prestazione come la punta di un iceberg è una pura visione metaforica, da un punto vista tecnico va considerata come la sommatoria di una serie di step precedenti.

La progressione esponenziale degli ultimi vent’anni che ha portato il nuoto ai livelli attuali è stata fortemente caratterizzata da periodi storici ben precisi.

  • Il primo step ebbe inizio nel 1998 in occasione dei Mondiali a Perth quando debuttarono ufficialmente i primi costumi da competizione e venne coniato il termine “costumone”, non tanto per le maggiori aree corporee che andavano a coprirsi, ma soprattutto per identificare uno strumento tecnico e non solo più un semplice indumento. Un primo effetto è stato di far progredire le prestazioni con il solo contributo tecnico, in quanto responsabili di un decremento della resistenza all’avanzamento. Si è ottenuto ciò soprattutto in termini di drag frontale grazie a un miglior galleggiamento, che in termini di drag di frizione andando a migliorare la superficie di contatto con l’elemento liquido. Inoltre il miglior galleggiamento ha permesso di prendere più in considerazione l’utilizzo delle gambe in termini strettamente propulsivi, dal momento che grazie a questo nuovo strumento tecnico venivano svincolate dal compito puramente stabilizzatrice e di supporto al galleggiamento stesso. Questo periodo non ha visto particolari cambiamenti per quanto riguarda gli aspetti condizionali dell’allenamento.
  • Andando avanti negli anni si è assistito alla progressiva ascesa di superfici corporee coperte e di diversi materiali per arrivare nel biennio 2008-2009 all’estremo di questa barriera tecnologica, anche se a voler essere precisi già in precedenza: erano già stati introdotti (e omologati dalla FINA) alcuni costumi multistrato. L’estremo di questa barriera tecnologica è stato raggiunto proprio in occasione dei mondiali di Roma 2009.
  • Infine il triennio successivo, culminato con le Olimpiadi di Londra 2012. Possiamo proprio dire che l’ultimo step, sicuramente il gradino più alto il più difficile da salire, ma che ha permesso di vedere il nuoto da un altro punto di vista. La stessa barriera tecnologica dello step precedente è stata abbattuta, o meglio superata con un’azione controcorrente, tornando indietro nel tempo. Il ritorno al costume tradizionale (sempre per modo di dire), è stato subito visto come un passo indietro nello scetticismo generale; si parlava in quel periodo di azzerare i tempi stabiliti con una certa tecnologia, o quantomeno fissare un punto zero dividendo l’albo dei record in due categorie. Ma per un passo indietro (anche solo apparente) sono stati fatti almeno 3 passi avanti. Dall’apprendimento di quei costumi si è avuta una consapevolezza, una confidenza con certe velocità che prima era impossibile immaginarsi lontanamente. La verità è che il costume di nuova generazione aiutava si in gara gli atleti con pesi diversi, ma ha fatto capire a tutti gli addetti ai lavori che per pensare di raggiungere nuovamente quelle performance ottenute in quel lasso di tempo precedenti per i motivi appena descritti (evoluzione tecnica e biomeccanica), si sarebbero rivelati fondamentali una serie di cambiamenti nel modo di approcciare la preparazione del nuotatore in tutti gli aspetti, cercando una nuova filosofia di costruire la prestazione finale in allenamento. In conclusione l’evoluzione tecnica e biomeccanica ha reso necessaria una rivalutazione degli aspetti metabolici e condizionali.
Per interi decenni si è parlato di aspetti condizionali e aspetti tecnici, anche ritenendo via via sempre più importanti gli ultimi, ma sempre secondo uno schema in cui sono definiti come due stati mutualmente esclusivi. Gli ultimi periodi storici hanno invece posto il focus sul nuoto che è si uno sport di prestazione, ma su imprescindibili basi tecniche. I due grossi aspetti appena menzionati sono strettamente in mutua correlazione, in pratica sono legati a un doppio filo. Rimane intatto l’obiettivo della performance natatoria nel riuscire a mantenere una velocità più alta possibile su una certe distanza in un certo stile, ma sono cambiati i mezzi per raggiungere tale obiettivo.

È noto dalle teorie dell’esercizio fisico formulate in tutti i modi come i meccanismi energetici danno un certo contributo in base al tempo di sforzo, ma non si pongono il problema su come l’energia richiesta è funzione del drag e dell’efficienza propulsiva nel caso specifico del nuoto. Quest’ultimo aspetto va sottolineato perché è proprio il punto chiave che è stato possibile focalizzare grazie all’evoluzione apparentemente tecnica e biomeccanica osservata nei primi dieci anni del nuovo millennio.

Si è capito sempre di più come la tecnica di nuotata è strettamente legata alla velocità di gara: già nel 2011 il tecnico ungherese Tamas Gyertyanffy dichiarò al sottoscritto in un’intervista che «ogni velocità ha la sua tecnica».

In questo semplice inciso ci si ricollega nuovamente alla parte condizionale: quanta energia serve veramente per nuotare in un certo modo con una data soluzione tecnica, e come danno veramente il loro apporto i meccanismi energetici noti in letteratura all’interno di una prestazione natatoria?

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Proprio nel 2009 al convegno dell’ASCA – l’associazione degli allenatori americani – il professor Brent Rushall ha esposto per la prima volta diversi dubbi e perplessità provando a dare delle risposte ai quesiti appena enunciati.
Il suo intervento, cui fece seguito un articolo pubblicato sulla rivista Swimming Science Bullettin, fu incentrato su un’idea ben precisa: tutta la metodologia dell’allenamento, compresa quella relativa al nuoto, è in parte basata su delle teorie e dei postulati, ma non sono affatto evidenti i contributi reali ai miglioramenti prestativi degli schemi tradizionali applicati per anni.

L’invito di Rushall non è stato altro che quello di basarsi di più sull’evidenza e i dati oggettivi, piuttosto che sulle pure teorie, non sbagliate, ma troppo generalizzanti. Ha posto l’accento su pochi concetti apparentemente già noti, ma in una nuova chiave di lettura. Il suo punto di partenza fu il seguente.

Sempre in termini prestativi, altri sport hanno una diversa domanda energetica, differenti modi di applicare la forza muscolare e infine momenti di riposo piuttosto singolari. Cosa cambia nel nuoto:

  • Nell’acqua c’è assenza di gravità, quindi il concetto di forza non potrà masi essere applicato allo stesso modo;
  • La prestazione natatoria coinvolge si dei distretti muscolari specifici al pari di altre discipline, ma a differenza di queste ultime, all’interno del movimento ciclico si verificano dei momenti di pausa alternati da fasi propulsive e ciò condiziona in qualche modo il reclutamento di energia.
Si tratta di concetti ripetuti innumerevoli volte, ma che forse non sono stati pienamente interpretati sin dal principio. Infatti solo in tempi recenti è proprio emerso, partendo sempre da queste considerazioni, che dal punto di vista condizionale il nuoto mostra delle differenze piuttosto tangibili rispetto ad altri sport di prestazione.

Proprio a causa della riduzione della richiesta energetica che si ha nella cosiddetta fase di recupero e della forza applicata su una base di appoggio cedevole ne scaturiscono alcuni benefici in termini di disponibilità di energia, che si rivelano unici nel loro genere. Ecco che sono emersi i due aspetti che tracciano un confine ben preciso:

  • Nel nuoto il periodo di tempo in cui contribuiscono alla fornitura di energia i sistemi anaerobici è molto più prolungato, sia per quanto riguarda quello alattacido che quello lattacido. La disponibilità di questi due serbatoi non si esaurisce nei tempi indicati in media per le altre discipline sportive (rispettivamente intorno ai 10 s e ai 45 s); la richiesta di elevata potenza solo da parte di alcuni muscoli fa si che gli stessi godano di un ripristino dell’energia da parte di quelli meno impiegati attraverso il sistema circolatorio.
  • Il sistema aerobico lavora si di continuo attraverso l’apparato cardiocircolatorio, ma a livello muscolare, quindi in ambito periferico, sono continuamente richieste le capacità dei sistemi anaerobici di compiere al meglio il loro lavoro. Molto spesso lo studio dei sistemi energetici applicati al nuoto ha portato a enfatizzare erroneamente il fatto che un programma di allenamento deve debba essere strutturato per stimolare e allenare i vari meccanismi energetici in modo totalmente indipendente l’uno dall’altro. Ma in un qualsiasi ambito di competizione agonistica è assolutamente improbabile che si verifichi una situazione in cui viene impiegata una singola fonte energetica.

Queste tematiche mettono ben in evidenza il fatto che all’interno della prestazione natatoria la distribuzione di energia è abbastanza distante dai numeri e dalle quantità stimate nello studio di altre discipline sportive.

Da queste considerazioni sono nate alcune nuove proposte di allenamento che permettano di ottimizzare tutte queste differenze fisiologiche. Lo schema si basa sui seguenti punti fondamentali:

  1. L’intensità dell’allenamento deve essere quella della velocità media di una gara di nuoto specifica. Solo la velocità relativa all’andatura gara permetterà sia agli aspetti relativi alla tecnica che ai meccanismi fisiologici richiesti di poter essere allenati al meglio in modo da assumere un effetto immediato sul compito specifico che una determinata gara richiede.
  2. Il formato dell’allenamento deve essere quello che rispecchia il più possibile l’evento gareggiante, non solo la performance singola. Ne consegue così il principio della specificità, requisito indispensabile per produrre effetti allenanti e trasferibili nel fattore prestazione. Solo un metodo di lavoro ben strutturato e ottimizzato permette di poter produrre il più alto volume di allenamento possibile contenente stimoli rilevanti per la gara.
  3. Dal momento che l’efficienza propulsiva può essere sviluppata solo in allenamento, se l’obiettivo è migliorare la performance finale allora l’unica soluzione possibile al problema è di riuscire a migliorare l’efficienza della nuotata a velocità di gara per poter ottenere i migliori effetti allenanti possibili.
Ormai gli allenatori hanno ben compreso che alcuni miglioramenti solo settoriali, facilmente ottenibili secondo l’approccio tradizionale dell’allenamento spesso non si traducono in un miglioramento in gara. Il tutto va sempre inserito nello schema finale; di conseguenza è sconsigliabile considerare i possibili effetti del condizionamento e dello sviluppo della tecnica in maniera indipendente l’uno dall’altro.

Se l’obiettivo è di sviluppare una tecnica in funzione di una gara, solo un approccio di lavoro del genere può portare i benefici richiesti, proprio perché la tecnica varia in funzione della velocità.
A dir la verità questo tipo di allenamento non è del tutto nuovo, infatti in tempi remoti era si presente, ma veniva considerato come un generico allenamento ad alta intensità tendente al VO2max. Il modo in cui veniva concepito era troppo generico e non permetteva una sua collocazione ottimale all’interno di un programma di lavoro. In diverse programmazioni l’allenamento alla gara specifica occupa ancora una percentuale troppo bassa, e da come viene formulato rappresenta solo una rifinitura e non una base vera e propria, perché non genera un adattamento.

Adattamento che in questi casi si ha con degli schemi legati alla fisiologia tradizionale: come risultato si ha anche un raggiungimento di una buona forma fisica, magari un miglioramento dei tempi nuotati nelle serie di allenamento, e un innalzamento di certi parametri metabolici. Ma sono tutti fattori che non corrispondono quasi mai al miglioramento reale della prestazione agonistica: in altre parole si tratta di allenamento all’allenamento e non allenamento alla gara.

La base di una buona programmazione è costituita dalla comprensione degli effetti che una seduta di lavoro genera sul fisico. L‘interval-training è stato concepito per misurare al meglio questi effetti e ciò viene fatto sostanzialmente con due parametri fondamentali: intensità e volume.

Ad esempio alcune forme di allenamento lattacido tradizionali, come nel caso di tempi di recupero elevati producono aumenti sostanziali di lattato e fatica associata come l’esaurimento delle riserve di glicogeno. Nel caso dell’allenamento moderno definire questi parametri è più complicato, ma di fondamentale importanza per inquadrare bene l’allenamento stesso.
Un lavoro ad alta intensità del genere coinvolge sia il lavoro anaerobico che aerobico. La combinazione di stimoli differenti produce maggiori miglioramenti rispetto al solo allenamento aerobico generale.
Si tratta di una forma consolidata di interval-training che alterna fasi di fatica e fasi di riposo ed è stato raccomandato per il nuoto, perché le fasi di recupero sono ottimizzate per far funzionare al meglio i meccanismi energetici deputati alla gara nella modalità in cui intervengono durante la gara stessa.

La comprensione ottimale di questo fenomeno è di fondamentale importanza per capire la specificità dei parametri del carico. Poiché la specialità da allenare è diversa, allora la tipologia di lavoro, sempre basata sui ritmi gara in ogni caso, deve essere modulato in base alla specialità da preparare e quindi i parametri di fatica nel tempo variano da un lavoro all’altro.

L’evoluzione dell’allenamento moderno è proprio andata in questa direzione, perché non esiste più l’allenamento dei velocisti o dei fondisti, ma solo esclusivamente l’allenamento della specificità.

Foto: Fabio Cetti | Corsia4