Il punto chiave dal quale sono partiti un po’ tutti gli studi riguardanti la biomeccanica delle discipline natatorie è posto nel fatto che a differenza della propulsione terrestre, basata sull’impiego degli arti inferiori, il nuoto deve la maggior azione propulsiva alla parte superiore del corpo.

Tante parole sono state spese sulla posizione della mano del nuotatore e sulle traiettorie da mantenere nei diversi cicli di bracciata. Di sicuro c’è sempre stata consapevolezza nella funzione equilibrante delle gambe, non altrettanto per quel che riguarda il loro apporto propulsivo, che è emerso sin da subito solamente nella rana.

Ma specialmente nel nuoto moderno, ormai non è più possibile definire una gara o una specialità solo come la distanza da percorrere secondo le regole dei canonici quattro stili.

Le tecniche di nuotata hanno mostrato dei principi biomeccanici universali, ma il vero denominatore comune è risultato essere il quinto stile, che permette di inquadrare una gara di nuoto non più come parti distinte, ma come un’unica frazione nuotata, anche se con tecniche diverse, a seconda del momento.

Risulta così evidente un nuovo schema motorio acquatico basato su quel gesto ondulatorio facilmente osservabile nei cetacei: una sorta di gambata a delfino per l’appunto.

Dal momento che in questa forma alternativa di locomozione acquatica è facilmente intuibile che l’avanzamento è affidato completamente alle gambe e ai piedi del nuotatore, un tentativo di approfondimento è d’obbligo. Tutto ciò non fa altro che confermare il fatto che il percorso per mettere insieme tutto questo mosaico infinito è stato a dir poco lungo fino a oggi e pare quasi risultare interminabile e sempre ricco d’insidie.

I pezzi da unire infatti non sono stati solamente rimescolati all’infinito, ma alcuni sono risultati per molto tempo introvabili, e altri non sono pervenuti tuttora. Questo perché lo studio delle diverse forme di locomozione in sé risulta uno dei compiti più semplici solo all’apparenza. Del resto, si tratta di un organismo vivente che applica una forza all’ambiente esterno producendo un’accelerazione nel verso opposto.

Tornando al caso semplice del ciclo di bracciata già erano emerse difficoltà nel ridurre il problema solamente al terzo principio della dinamica (quello di azione e reazione per intenderci), dal momento che la propulsione all’interno di un fluido, in termini di forze in gioco, non è così semplice come può sembrare all’apparenza. Soprattutto se intendiamo la propulsione acquatica alle velocità in gioco oggigiorno nel nuoto di alto livello. La grossa difficoltà emerge proprio in virtù del fatto che tali velocità comportano una forte alterazione del comportamento dell’ambiente acquatico circostante l’avanzamento del nuotatore. La fluidodinamica insegna che in tali condizioni, il flusso d’acqua da laminare (acqua ferma) diventa turbolento, caratterizzato quest’ultimo dalla formazione dei vortici.

Il vero punto chiave è proprio quello di riuscire a trovare la vera correlazione tra l’analisi cinematica tradizionale rivolta al gesto tecnico in se e le modificazioni osservabili che subisce l’ambiente fluido intorno al nuotatore. Se questo metodo ha rappresentato la svolta per chiarire negli anni molti dubbi emersi sullo studio delle nuotate classiche, risulta veramente indispensabile per la comprensione di quest’ultimo fenomeno natatorio. Proprio per il fatto che il movimento viene effettuato in verticale, non è possibile apprezzare la classica forza applicata in direzione posteriore che permette l’avanzamento nel verso opposto. Di sicuro il segreto è da ricercare nello studio del regime turbolento che si genera durante il movimento analizzando il comportamento dei vortici che è possibile osservare.

La prima particolarità che è possibile notare nell’esecuzione del gesto riguarda il progressivo incremento dell’ampiezza di questa oscillazione del corpo: minima o praticamente nulla nella parte anteriore, per raggiungere il massimo nella parte terminale degli arti inferiori, ovvero nei piedi. In modo analogo per i cetacei si tratta della pinna caudale.

 

Proprio in questa zona si trovano le fondamenta di questo meccanismo. La grossa differenza di comportamento tra un corpo fermo e un corpo in movimento rispetto all’asse verticale è data dalla diversità dei vortici: mentre nel primo caso si genera un unico vortice che determina solo una resistenza all’avanzamento, durante il movimento delle gambe viene scaturita una vera e propria sequenza di vortici a fasi alterne, orientati il primo in senso orario e il successivo in senso antiorario e così via.

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La zona compresa tra queste file di vortici prodotti definisce la vera ampiezza dell’oscillazione del corpo, e proprio all’interno di questa fascia si verifica un vero e proprio flusso d’acqua con direzione opposta a quella di nuotata. Anche in questo caso è così verificato il principio della meccanica classica che determina il normale avanzamento di un corpo, sulla terra come in acqua. Infine, proprio in virtù di questo particolare meccanismo di generazione dei vortici, la gambata a delfino subacquea rappresenta una forma di propulsione natatoria più efficiente rispetto alla classica bracciata a crawl.

L’ulteriore motivazione di questa efficienza non è altro che sott’acqua è quasi assente la resistenza d’onda, detta anche “wave-drag”. Il punto chiave per beneficiare di questo meccanismo è la differenza tra umani e cetacei: questi ultimi oltre che una maggiore superficie di spinta (la pinna caudale al posto dei piedi), presentano una sorta di “continuità vertebrale” dal momento che sono dotati di elementi vertebrali lungo quasi tutto il loro corpo. In questo modo sono dotati di una maggiore capacità di controllo dell’oscillazione, differenziandola maggiormente tra la parte posteriore e la parte anteriore. Un’eccessiva oscillazione di quest’ultima, comporta solo uno spreco di forza che viene dispersa e risulta frenante dal momento che ostacola il flusso generato positivamente dai vortici dovuti invece al movimento della parte posteriore. 

Per noi umani il controllo di tutto questo motore complesso che abbiamo presentato, può essere ridotto esclusivamente alla zona in corrispondenza del bacino. Ecco perché a una poderosa azione di gambe deve corrispondere di pari passo un’elevata mobilità del bacino.

Infatti, il vero fattore che può risultare limitante la forza disponibile nei muscoli delle gambe risiede nella non altrettanta velocità del bacino di flettersi in modo da inseguire il movimento delle gambe stesse per riuscire a garantire il timing ottimale e permettere alla parte superiore di assorbire il movimento generato dalla gambata senza comportare alcun scostamento nocivo alla propulsione.

Consigli per l’apprendimento del quinto stile

1. Prima di soffermarsi solo sull’impiego delle gambe, la verità è che si nuota sempre con tutto il corpo, d’altronde siamo tutti concordi all’unanimità che il nuoto è uno sport completo. Concentratevi quindi prima di tutto sulla coordinazione corretta ovvero sulla giusta fase che l’oscillazione del corpo deve avere per trarre il vero vantaggio da questo meccanismo.

2. Come conseguenza del punto precedente, è vero che la propulsione vera è propria in questa situazione è deputata agli arti inferiori, ma se il movimento non viene trasmesso dalla parte superiore del corpo (tronco e bacino) risulterebbe vano ogni tentativo di spinta con le gambe perché non avrà mai innesco l’oscillazione e la propulsione non sarebbe possibile.

3. Sempre in merito all’utilizzo della parte superiore, è bene sottolineare che la zona specifica interessata è solo limitata al bacino e alla fascia addominale, la vera responsabile di tutta la coordinazione motoria. Un movimento eccessivo della parte alta provocherebbe solo un ulteriore aumento dei vari attriti (in particolare il drag dovuto alla forma del corpo) e una perdita della fase corretta, vanificando tutto il lavoro.

4. L’utilizzo delle pinnette per l’apprendimento di questa tecnica è utile, prima di tutto per sviluppare la flessibilità delle caviglie, ma è alto il rischio di non concentrarsi sul movimento del bacino quindi di perdere la fase corretta tra i diversi segmenti corporei.

5. Per valutare la vera efficienza di questo gesto tecnico non bisogna avere come unico obiettivo quello di fare più metri sott’acqua possibile. Ricordiamoci che il regolamento delle gare prevede la percorrenza di un massimo di 15 metri. Quindi gli obiettivi possibili delle varie esercitazioni in questo campo sono due: migliorare il tempo di percorrenza della distanza prestabilita, oppure allungare si il numero di metri percorsi a parità del numero di colpi effettuati, come da definizione di efficienza in se.

Foto: Fabio Cetti | Corsia4